Intervista a Mohammad Rasoulof
Mohammad Rasoulof è il regista de L’isola di ferro, straordinaria metafora del mondo iraniano. Un film che ha girato quasi quaranta festival tra cui quello di Cannes nella sezione Quinzaine des Réalisateurs.
La storia di questo cargo galleggiante, immobile, su cui vive un’intera comunità si ispira a un fatto reale?
Mi sono ispirato a una pièce teatrale che avevo scritto dieci anni fa, riprendendone i personaggi principali. E’ una storia immaginaria e si muove a livello simbolico. D’altra parte, però, volevo restare realista nello svolgimento. Non volevo che la metafora soffocasse la realtà delle situazioni. Credo che l’osservazione di una comunità che subisce la forte influenza del suo leader sia un soggetto universale. Vi si mescolano i temi della sottomissione, del tradimento, delle grandi speranze e delle successive delusioni.
C’era già questo sconvolgente “pesce – bambino”?
Certo. E’ essenziale perché rappresenta la speranza. Durante le riprese, il ragazzino era una specie di mascotte. Lui incarna la nuova generazione, quella che forse riuscirà a liberarsi dalle condizioni in cui sono imprigionati i predecessori.
Il film è molto diverso dalla piece teatrale?
La pièce era immersa in un’atmosfera surrealista. Per il film ho preferito avere dei riferimenti più precisi, ma sempre con la volontà di rivolgermi a tutti gli spettatori. Il film è ambientato in una piccola isola dell’Iran, nel magnifico golfo persico. In un certo senso è un mondo “in disparte”. La mentalità, l’abbigliamento, il modo di pensare, le tradizioni religiose che sono raccontate nel film non sono tutte iraniane, ma rinviano ai codici della vita attuale in Medio Oriente.
E a quelli europei no?
Credo che quando uno vede il capo della nave in qualche modo “addormentare” le sue truppe con la sua parlantina, si può anche pensare ai media che ogni giorno invadono il mondo con i loro discorsi. E’ una situazione universale, i capi abusano del loro potere anestetizzando la gente con le parole.
E il vecchio che fissa il sole?
Il suo è lo sguardo di tutti gli orientali: esprime la speranza che qualcosa sta per succedere. Si resta in attesa, nel bisogno di luce. A volte si spera nell’arrivo di un eroe, di un salvatore. Quest’attesa può significare il rifiuto del presente. Ad ogni modo il vecchio alla fine del film inizia a ridere. Mostrare la vita in anarchia, su questo cargo, potrebbe rimandare a una sorta di “isola ideale” utopica.
Però lei è più critico, perché ne mostra anche i disfunzionamenti.
Ma io non sono pessimista. Certo, se si considera la visione d’insieme, posso sembrare severo. Il gruppo si sottomette, però ognuno ha la possibilità di trovare una scappatoia.
Che intende dire?
Per esempio, sulla nave ogni forma di comunicazione è filtrata dal capo. La parabola che permette di ricevere le immagini televisive viene buttata. I giornali che vengono distribuiti sono vecchi. Il capo permette agli altri di avere soltanto ciò che lui reputa giusto. La comunità, di conseguenza, è isolata, il che crea una sete di comunicazione ancor più grande. In questa situazione anche la più piccola possibilità di evasione diventa importante. Quando il maestro insegna alla classe di bambini, cerca in qualche modo di risvegliare le loro coscienze, anche se indirettamente: «siamo su una barca che è nel mare, e il mare è nel mondo… quindi noi siamo nel mondo». Riflettendo, gli studenti possono apprendere da queste parole il concetto di libertà, capire che non sono soltanto gli occupanti di una nave, bensì i passeggeri del mondo intero. Nel momento in cui, durante un dettato, il maestro dice «e la nave affonda!», ha trovato il modo di essere sovversivo, di dire ciò che pensa, senza però dirlo apertamente.
E a proposito della religione?
Il capo invita la gente ad andare in pellegrinaggio. In realtà, però, ha una visione della religione a suo uso e consumo. Credo che oggi uno dei desideri più forti sia quello di sentirsi liberi nei confronti della religione.
Che significato ha la sciarpa che porta uno dei personaggi quando viene accompagnato in un luogo apparentemente sacro?
Il giovane è esanime e avrete notato che alla fine la sciarpa non c’è più. Rimanda a una credenza. Sul mausoleo dei discendenti dei profeti si è soliti fare delle offerte. Si esprime un desiderio e si annoda una sciarpa. La tradizione vuole che quando il nodo della sciarpa si scioglie, il desiderio si realizza.
Quando nel film il giovane rinviene la sciarpa intorno al collo è scomparsa.
Con questo non voglio però raccontare un miracolo; è semmai l’espressione di una speranza. Nessuno vieta di pensare che, semplicemente, qualcuno sia passato è abbia preso la sciarpa. La cosa importante è che la sciarpa non c’è più, mentre il giovane ha trovato la libertà.
Qual è il personaggio principale de L’isola di ferro?
La comunità tutta intera: limitata, confinata, prigioniera di regole del tutto arbitrarie. E’ per questo che non ho voluto avere un approccio troppo sentimentale o psicologico, [img4]né privilegiare un abitante della nave piuttosto che un altro. E’ la pittura di un movimento d’insieme che mi interessava, non un singolo individuo.
Questo però porta ad avere una certa distanza.
Rispetto al racconto tradizionale forse sì, ma più che un personaggio c’è uno sguardo in cui lo spettatore è invitato a identificarsi, lo sguardo della telecamera. Uno sguardo che vuole essere neutro, privo di pregiudizi. In questo senso amo molto i film di Kiarostami. Vorrei che il mio lavoro di regia fosse abbastanza invisibile da dare la possibilità agli spettatori di crearsi un’opinione propria.
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