Un giorno questo dolore ti sarà utile: il quadro di Cameron, la cartolina di Faenza
Diciamolo pure, senza mezzi termini e senza ipocrisie: dopo aver visto Un giorno questo dolore ti sarà utile abbiamo perso tutto l’entusiasmo con cui ci eravamo caricati qualche ora prima. È naufragata malamente anche la curiosità mista a un (nemmeno tanto segreto) orgoglio italiano di vedere Roberto Faenza, uno dei registi di contemporanei più amati in assoluto qui da noi, alle prese con un film co-prodotto e girato negli States, in quella stessa New York City nella quale aveva ambientato il suo unico precedente “americano” nel 1983: Copkiller.
È una delusione che ha lo stesso sapore di tante altre avventure americane, anche recenti, di alcuni nostri registi. Ma mentre, ad esempio, Paolo Sorrentino aveva fondato tutta l’estetica di This Must Be the Place (2011) sull’immaginario delle grandi distanze Usa, svuotando il contenuto filmico e abdicando al suo ruolo autoriale, Faenza forse commette l’errore contrario. Scrive in profondità il film, tanto in profondità che però che non lascia spazio ad altro. Tanto in profondità, potremmo dire, che ne rimaniamo bloccati, incastrati, cristallizzati. Senza che ci sia concesso uno spazio riflessivo, e anzi costretti a inseguire continuamente un plot che finisce per diventare scontato perfino per chi non aveva mai letto il bel libro di Cameron da cui è stato tratto il film. Ecco, mentre Sorrentino peccava di ostentata fascinazione nei confronti di una location d’eccezione, Faenza pecca di timore reverenziale e manca tutte le potenzialità che una tale produzione gli avrebbe permesso di sviluppare. Questo approccio didascalico ci fa perfino dimenticare di muoverci nella grande Mela, come se il regista avesse timore degli spazi, di quell’immaginario americano che è invece il cuore del libro di Cameron e il suo fulcro narrativo. Lo sguardo di Faenza non guarda l’America, non ne coglie le similitudini con il giovane protagonista James e la sua visione del mondo, ma piuttosto ci appare inibito; non si capisce se carico di un pudore primordiale o frenato da una non chiarissima sindrome di inferiorità. Il risultato finale però è chiarissimo: tutto ne esce stilizzato e rinchiuso in una cornice troppo stretta per farci respirare quell’emotività che Cameron era riuscito a trasmettere nella sua opera. Ecco allora che Un giorno questo dolore ti sarà utile, emerge come una banale cartolina turistica, rispetto al suggestivo e stratificato quadro realizzato dallo scrittore statunitense.
Chiariamo una cosa: Faenza sceneggia e gira senza macchia. Il “compitino americano” lo svolge da bravo regista qual è e aiutato dalla notevole interpretazione del giovane Toby Regbo, una delle cose migliori di tutto il film. Ciò che manca però è appunto quel coraggio di spingersi oltre a una provincialità tutta italiana nelle scelte di regia (ma anche nelle musiche di Andrea Guerra e nelle canzoni di Elisa) e di superare senza timore l’ingombrante narrazione cameroniana per renderla cinematograficamente tangibile. Non tanto per tradire il libro, ma per valorizzarlo visivamente e dunque esserne più fedeli. Dopotutto a Faenza non chiedevamo certo di fingersi Wes Anderson o Richard Ayoade. Ma solo di cogliere un’occasione che in questo caso, purtroppo, ci pare quasi totalmente sprecata.
Curiosità
Faenza ha lavorato sui dialoghi con la collaborazione di Dahlia Heyman, sorella di David, produttore della saga di Harry Potter. Heyman è una famosa ghost writer negli States e per la prima volta con Un giorno questo dolore ti sarà utile ha voluto accreditarsi nella sceneggiatura proprio perché non è un film di esclusiva produzione americana.
A cura di Daniele Lombardi
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