Intervista a Luigi Falorni
Abbiamo incontrato Luigi Falorni a Milano subito dopo l’anteprima del suo documentario La storia del cammello che piange.
Interessante durante la conversazione con Falorni è stato scoprire che questo film è nato come progetto per la sua tesi di laurea presso la Scuola di Cinema di Monaco.
Com’è nata l’idea del film?
La genesi del film viene dal rito musicale finale. L’idea viene da un piccolo cortometraggio degli anni ottanta di 15 minuti sul rito musicale che fa riavvicinare la mamma cammello al suo piccolo.
Cosa sarebbe questo rito musicale? Perché si fa?
E’ un rito che si fa nel deserto del Gobi per far riavvicinare la mamma al suo piccolo. Nel film dura dalla tarda mattinata al tramonto ma può durare anche qualche giorno. Capita a volte, per il dolore e il travaglio del parto o per altri motivi, che un cammello rifiuti il proprio figlio e per farli riavvicinare il rito musicale è il rimedio.
Com’è andata la lavorazione?
Prima sono andato nel deserto del Gobi in cerca della famiglia adatta e in cerca della storia e di una mandria abbastanza fornita perché trovassi almeno un caso di rifiuto. La ricerca è durata due settimane. Le riprese invece sette settimane, da metà marzo a maggio, il periodo delle nascite per i cammelli. Le difficoltà e le complicazioni sono state molte, dai venti che soffiano fino a 150 km/h alle tempeste di sabbia. Abbiamo quindi spesso dovuto interrompere le riprese perché il vento ci impediva la registrazione del suono. E avere il suono originale è fondamentale in un documentario. In esso il suono è quasi più importante dell’immagine.
Quindi definisci La storia del cammello che piange documentario? Non film?
C’e stato un trattamento preciso in termini di racconto, ma non c’è stata sceneggiatura.
Trovo quindi che la definizione documentario narrativo sia la più appropriata. Implica l’uso di elementi cinematografici e tecniche drammatiche, collocandosi comunque entro i confini del documentario. Il mio esempio ispiratore nel difficile compito di miscelatura e bilanciamento delle due anime del film sono state le prime opere di Robert J. Flaherty. In film come Nanuk l’eschimese (Nanook of the North, 1922) e L’uomo di Aran (Man of Aran, 1934) questo registra straordinario ha riunito realtà, personaggi non-attori con una mise-en-scène progettata con cura.
E com’è andata con i tuoi personaggi-non attori?
I protagonisti del mio documentario sono persone estremamente dirette che non si mettono in scena perché non sono abituate a farlo, sono quello che sono.
La curiosità intorno alla macchina da presa, questo oggetto per loro così strano e futuristico, non veniva solo dai bambini ma anche dagli adulti.
Non sei l’unico regista del tuo documentario. Al tuo fianco ha lavorato Byambauren Davaa, può dirci qualcosa di lei?
Lei è mongola. L’ho incontrata alla Scuola di Cinema di Monaco e abbiamo collaborato a due film durante gli studi. Questo è il mio film di laurea e lei mi ha dato l’ìdea del soggetto e mi ha affiancato durante le riprese. Lei poi ha continuato a studiare e ora ha fatto il suo film di diploma che forse uscirà anche in Italia.
Per l’inno alla natura e la poeticità della sua rappresentazione ti sei forse ispirato a Dersu Uzala di Kurosawa?
In realtà il mio modello di riferimento è stato Urga di Michalkov ambientato nella Mongolia interna.
Girando nel deserto del Gobi sei venuto a contatto con una cultura a noi diversissima e lontana, com’è andata?
Durante i due mesi di convivenza ho potuto conoscere la grande forza di questa cultura. Sono rimasto completamente conquistato da loro, io non avevo niente da dirgli ma ero fruitore e spettatore di questa grande cultura. E il film vuole raccontare l’animo, il modo di sentire di queste persone, non vuole essere un film di denuncia di una cultura da proteggere ma solo mostrare la loro vita e il modo di risolvere i problemi all’interno del gruppo.
E nel film infatti emergono questo tuo rispetto e grande fascinazione per la cultura nomade mongola. Cos’è per te fare un documentario come questo oltre che raccontare storie e persone?
Il fare documentari dà l’opportunità di mettersi in relazione con persone da noi lontanissime che vivono secondo altri criteri e poi accorgersi che siamo tutti uguali e fratelli. Mi pace andare nell’esotico per trovare l’universale.
Alla fine del film il bambino ottiene la televisione che tanto desiderava, è la modernità che entra nel deserto del Gobi?
E’ sempre difficile trattare questo aspetto e riuscire a farne una giusta riflessione. Ma mi sentivo obbligato a inserire il tema della modernità nel documentario per non fare un film fuori dal tempo solo con carattere etnografico.
Il documentario ha ricevuto una nominatin agli Oscar appena passati, come hai vissuto questa candidatura?
E’ piovuta dal cielo, non era aspettata né programmata. Sapevamo che eravamo nella scelta degli ultimi dodici però non ci contavamo.
La candidatura mi ha stupito, non me lo sarei mai aspettato perché il film non ha nulla di Hollywoodiano, semmai di aristotelico essendo una narrazione con un inizio, una parte centrale e una fine. Ma agli americani la narrazione classica senza guizzi e semplice alla fine piace.
L’esperienza di Los Angeles l’ho vissuta con interesse antropologico: Hollywood è un altro pianeta.
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Progetti per il futuro? Tu vivi e lavori in Germania, non torni in Italia?
Per ora abbandono il documentario. C’è in cantiere un progetto di fiction.
No, per il momento l’Italia no. Continuerò a lavorare in Germania, io vivo a Berlino.
Cosa pensi dello stato attuale del documentario?
A livello planetario il documentario c’è e fa soldi. In Italia il sistema del documantario va ancora un po’ a rilento ma speriamo in una svolta.
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