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Un amore che spodesta il destino

Un amore che spodesta il destino

I guardiani del destino: un titolo che evoca un determinismo senza vie di fuga, almeno per chi non osa ribellarsi ad esso. Così è stato tradotto il titolo originale, The Adjustment Bureau, film di debutto di George Nolfi, già sceneggiatore di diversi thriller e action movie tra cui The Bourne Ultimatum (2007). Inevitabile che il mix già collaudato di azione e spionaggio costituisca una parte importante, ma solo strutturale, della pellicola. Sul lato contenutistico, infatti, Nolfi trae ispirazione e si lascia guidare dal racconto breve The Adjustment Team (1954), di Philip K. Dick, autore visionario e nevrotico che rappresenta un vero e proprio vaso di Pandora per i soggetti di molto cinema cupamente fantascientifico, da Blade Runner a A Scanner Darkly. Il suo contributo “ai confini della realtà”, seppur in dosi meno massicce, lo ritroviamo anche in I guardiani del destino. Ma è forse l’argomento della “scelta”, elemento strutturale fondamentale di molto cinema hollywoodiano, che campeggia in questo prodotto ibrido in cui si mescolano passato (la divisa anni Cinquanta degli agenti dell’Adjustment Bureau) e presente (il sempre attuale tema della ricerca di un ruolo nella società e del successo nella vita).

Non solo. Il film è una summa di tanto cinema post-moderno. L’attraversamento delle porte, quali mezzo di transfer spazio-temporale e la possibilità di interrompere e rivedere sequenze di vita già scritte riportano, infatti, alla mente tematiche già affrontate nel recente Inception (Christopher Nolan, 2010) e, trasversalmente, anche nella trilogia dei fratelli Wachowski (Matrix). La scelta, che rimane la conditio sine qua non, la discriminante che determina tutte le catene di eventi che costituiranno la trama del destino, ricorda da vicino Wanted di Bekmambetov (2008), altro film che rivela quanto la capacità di scegliere l’azione,invece che la sottomissione, possa svelare quanto di subdolo, arcaico e mistificatorio si nasconde dietro l’accezione stessa di destino. Un destino che non va accettato passivamente, ma le cui redini vanno governate per non essergli succubi e vivere un’esistenza a metà. A grandi linee, è ciò che accade in The Box (Richard Kelly, 2009) tratto da un racconto breve di un altro prolifico scrittore di fantascienza statunitense, Richard Matheson. A differenza dei suddetti film, tuttavia, il lungometraggio di Nolfi ha il pregio di non volere costruire un’architettura ingegnosa e astrusa, quasi fine a se stessa. Lineare nell’intreccio e nei contenuti, I guardiani del destino ricorda la semplicità e le atmosfere di Ai confini della realtà, dove le cose più banali, come appunto le azioni della vita quotidiana, assumono una valenza pazzescamente surreale e una rilevanza impensata nell’economia della storia umana o privata. La fotografia di John Toll (Braveheart, 1995, La sottile linea rossa, 1998) è invisibile eppure fortemente connotante: il suo ritratto pulito di New York, realisticamente edulcorata, si interseca con le luci nette del mondo parallelo in cui opera l’Adjustment Bureau, dove le tonalità del grigio e del marrone suggeriscono un ben preciso collocamento temporale, quello degli anni Cinquanta. Lo scompenso che si crea tra la complessa contemporaneità e la staticità che è una costante degli uffici deputati al controllo del destino, contribuisce a implementare la carica surreale e fantastica di ogni situazione. In questa dinamica bilaterale, gli attori entrano perfettamente in sintonia tra loro: tra Matt Damon e Emily Blunt (molto più giovane del partner) c’è affiatamento e naturalezza; Terence Stamp nei panni dell’intransigente agente del destino è impeccabile e perfetto nella sua mise anni Cinquanta.

Sebbene il lungometraggio soffra a volte di cali di tensione – specialmente quando ci si avvicina allo scioglimento della trama – è piacevole vedere come poi, alla fine, il senso ultimo che il regista vuole dare alla storia si racchiuda nel concetto che l’amore vince su tutto: un taglio finale netto che, grazie anche alle battute conclusive della pellicola, interpella con successo la risposta emotiva dello spettatore. Come afferma Toll: “Durante le riprese, chiedevo di volta in volta a George (Nolfi) di descrivermi che genere di film stavamo girando. La sua risposta cambiava ogni volta, ma alla fine concordammo di definire il film «thriller romantico, politico e metafisico»”

Curiosità
Il numero di telefono che nel film Elise (Emily Blunt) dà a David (Matt Damon), ossia il 212-6647665 è di proprietà degli Universal Studios ed è apparso in altri film distribuiti dalla major. Se chiamato, suona sempre libero.

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