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cultura dell'immagine e della parola

Intervista a Marco Philopat

Inquietudine, vitalismo, sete di conoscenza: sono alcuni dei tratti caratteriali principali del Melchiorre Gerbino romanzesco, che lo rendono bizzarro e stupefacente. Gli atteggiamenti del personaggio riflettono però anche l’energia, la voglia di libertà di un’epoca in cui la fiducia nel cambiamento era grande. Come vedi la cultura giovanile di oggi, pensi che vi siano forze di contestazione altrettanto vitali e propositive?

Innanzitutto bisogna capire cosa sono stati quegli anni, il ’66 e il ’67 Marco Philopat  Fonte: www.marinacafenoir.itsono stati momenti in cui il mondo occidentale ha fatto dei passi da gigante. Finalmente i giovani hanno potuto dire la loro ed è in quei due anni che sono nate le culture giovanili come le conosciamo ora. In campo musicale c’erano i Beatles e i Rolling Stones, in campo letterario venivano finalmente letti dei libri della Beat Generation, in campo cinematografico uscivano i primi tentativi di cinema underground, in tutte le arti c’era un grande fermento. In questo contesto i giovani per la prima volta salirono alla ribalta criticando lo stato delle cose. C’era una critica verso le istituzioni, la famiglia, la scuola, persino lo Stato. In particolare in Italia eravamo ancora parecchio provinciali: non c’era la televisione e i ragazzi dovevano rincasare alle 8.30 di sera. Pensa all’impatto che su questi giovani ebbero il concerto dei Beatles nel ’66, vedere coetanei che si facevano crescere i capelli, sentire chi parlava liberamente di sessualità e di droga, leggere On the road e voler viaggiare a tutti i costi.
Oggi non c’è niente di paragonabile alla rivoluzione di quegli anni, magari ci sarà un’altra ondata evolutiva, mi piace chiamarla così, ma per ora non vedo niente di simile, anche se la cultura giovanile di oggi è figlia della cultura di allora.
I Beat sono stati un movimento di avanguardia giovanile molto simile alle avanguardie artistiche di tutto il Novecento, solo che questi giovani non avevano studiato, erano ragazzi di strada, “scappati di casa”. Mondo Beat fu un’esperienza straordinaria, una rivista che subito si caratterizzò per farsi portavoce di tutti i ragazzi delle periferie, questa fu la grande novità. E Melchiorre Gerbino, che era un siciliano, scappato di casa a 21 anni e si era trasferito a Stoccolma, dove aveva vissuto una rivolta che nel Nord Europa era già esplosa, quando arrivò a Milano nel ’66 ci arrivò con una marcia in più e per questo diventò il leader dei “capelloni”.

La polifonia delle voci narranti è un piacevole espediente letterario, che dinamizza il ritmo e la struttura narrativa. Apparentemente serve ad arginare la prorompenza verbale di Mel, che altrimenti ci avrebbe sopraffatto con un interminabile monologo, ma a ben guardare esalta l’autenticità e l’energia del protagonista, visto che tanti ne hanno subito il fascino da voler tramandare i loro minuziosi ricordi.

Sono un appassionato di tutti coloro che sono grandi affabulatori, grandi raccontatori delle Storia perché secondo me la memoria storica va tramandata e per farlo ci sono due vie: o quella accademica dello storico vero e proprio, o quella del cantastorie, di chi ha vissuto di persona, sulla propria pelle momenti di grande rottura sociale. I cantastorie sono i portavoce della tradizione popolare dell’oralità e raccontano la storia dei vinti che difficilmente trova spazio nelle università. Allo stesso tempo per me rappresentano una sfida, quella di trascrivere in un libro, su carta stampata, la loro energia, l’affabulazione, i grandi scenari che essi raccontano.
Un giorno ho incontrato Gerbino e mi sono accorto che aveva questa grande potenzialità, anche tramandata dalla tradizione dei cantastorie siciliani, in più aveva girato il mondo e vissuto in situazioni da cui aveva avuto modo di osservare che cosa erano le controculture nel terzo mondo e mi piaceva la possibilità di costruire un romanzo con questo materiale. Certo io l’ho registrato Melchiorre Gerbino e poi mi sono accorto del tipo che è, veramente un personaggio egocentrico e megalomane! A questo punto, come avevo fatto con gli altri libri ho cominciato a raccogliere testimonianze di amici, parenti e soprattutto di suo figlio, per tentare di decostruire l’immagine eroica di sé che si era inventato. Attraverso la pluralità delle voci narranti ho cercato di bilanciare un po’ la prospettiva del protagonista anche se, soprattutto nella prima parte del romanzo, le testimonianze fanno notare di quale pasta ed energia era fatto il Gerbino: pensiamo al contesto storico, alla sua provenienza siciliana, al conflitto con il padre, all’episodio dell’elettroshock e a tutto quanto accadde nella sua giovinezza. Piano, piano però questa esuberanza, questo essere così vulcanico, comincia a essere un po’ noioso, anche per chi lo ascolta, perché il mondo cambia intorno a lui mentre lui non cambia mai. Nel rapporto con le donne si vede parecchio, le relazioni si deteriorano, dopo la moglie c’è stata un’altra donna importante che però lui dice essere stata l’ultima. E oggi gli rimane solo l’erotismo, che è l’unico luogo in cui ancora si sente liberato, attraverso il quale può continuare ad essere il contestatore di una volta, quello che sempre naviga sulle acque dell’antiautoritarismo.

Nel romanzo Milano è una città in fermento e in continua attività, anche culturale e politica. Cosa ne pensi della Milano dei nostri giorni, il fervore è molto, ma in quali direzioni?

Non so se il fervore sia molto…. Secondo me una città è viva quando tenta di inglobare anche le persone che sono un po’ in difficoltà. Il problema di Milano adesso è che c’è una città dei ricchi e una città degli emarginati, e queste due città sono in conflitto perenne, in questo si traduce la decadenza storica degli ultimi vent’anni di Milano: le periferie sono abbandonate e il centro è un salotto.
I beat, come tutte le controculture tentarono l’attacco al centro, infatti il giornale lo vendevano nel mezzanino della metropolitana di Cordusio, si ritrovavano in piazza Duomo, la sede era in Porta Romana. E i giornali, la polizia, i benpensanti, i bigotti, li cacciarono, cercarono in tutte le maniere di reprimerli, prima con i fogli di via, poi con le cariche durante le manifestazioni, però loro resistettero in qualche modo, finchè riuscirono ad aprire un campeggio nella periferia di Milano, in fondo a via Ripamonti, Barbonia City, e ci fu allora l’esito al contrario, cioè tutti i milanesi andavano a guardare loro, quasi che il centro cittadino si fosse spostato in periferia.
Attualmente il livello culturale milanese è ad un livello così basso che non ci sono più iniziative culturali. La Milano di oggi risente ancora dell’influsso di tangentopoli, per cui ha perso la sua caratteristica principale di città dell’accoglienza che ebbe negli anni Sessanta: durante il grande boom dell’emigrazione, a Milano gli immigrati erano comunque accolti, e i nuovi quartieri della periferia funzionavano come elementi di accoglienza, gli immigrati avevano una dignità, un lavoro, una casa. Ora gli immigrati che vengono da tutti i sud del mondo sono chiusi dentro il centro di detenzione di via Corelli, questo è un problema grosso per la città.
Le iniziative che stanno nascendo sono più o meno autorganizzate, come il vostro sito Hideout, ma mancano completamente gli aiuti dal punto di vista istituzionale. Quando Gerbino arrivò a Milano nel ’66, trovò la possibilità di mettersi insieme a delle persone e fare un progetto che è stata la rivista Mondo Beat. Erano un gruppo di ragazzi di varia provenienza, italiani, ma c’erano anche francesi, tedeschi, spagnoli, tunisini, Melchiorre Gerbino aveva colto le potenzialità della pluralità. Certo la polizia e i benpensanti li attaccavano ma c’era anche qualcuno come Dacia Maraini o Giorgio Bocca che li sostenevano, il dibattito aveva creato questo clima di accoglienza. Adesso non succede più così, Milano è una città dominata dai monolocali, dalla televisione e dall’incapacità di socializzare.

Questo romanzo è molto divertente e ha un buon ritmo narrativo. Trasmetti al lettore la sensazione di divertirti mentre scrivi, è così o sei uno scrittore che soffre per l’imperfezione della propria creazione?

Sì, di solito mi diverto parecchio a scrivere, però mi sono divertito molto di più a scrivere gli altri due romanzi Costretti a sanguinare e La banda Bellini, perché alla fine, nell’ultima stesura anch’io, purtroppo, ho incominciato ad odiare il personaggio Melchiorre Gerbino. Infatti la mia intenzione era di andare avanti con la storia fino a quando lui aveva 66 anni, ma il libro stava già diventando bello grosso e in più avevo dei problemi psichici a capire come fa uno ad affermare “a questo punto c’è solo erotismo”, proprio non riuscivo a capire.
In genere mi piace fare ironia sul personaggio, soprattutto su questi grandi affabulatori che con un bicchiere di vino e una canna, cominciano a parlare e si credono di essere chissà chi. Normalmente mi diverto a scrivere, ho sofferto tanto solo lavorando a I viaggi di Mel.
Io ho imparato a scrivere sulle punkzine, sono stato punk negli anni Ottanta, e i punk erano soprattutto gruppi musicali. Io avevo un problema, non riuscivo ad andare a tempo. Nonostante il punk fosse solo una musica urlata, più rumore che musica, io comunque ero costantemente criticato per la mia incapacità, per fortuna c’era anche un altro metodo di comunicazione, c’erano le punkzine e da lì mi sono appassionato alla scrittura, in maniera completamente creativa, nel pieno del concetto del fai da te.
Ho cominciato a sperimentare da solo e mi rendo conto ho un percorso di formazione parecchio originale. Dopo le critiche positive al primo romanzo, ho continuato nella stessa direzione, togliendo la punteggiatura, che è una tecnica che avevo affinato nelle bbs, le prime mailing list nella seconda metà degli anni 80. E ormai è una vera passione, la scrittura è diventata per me un investimento libidinale, e se non scrivo almeno 3 o 4 ore al giorno sto abbastanza male.

Ci racconti un aneddoto riguardante il Melchiorre Gerbino in carne ed ossa? Per esempio, la sua reazione al romanzo è stata proprio quella con cui si conclude il libro?

Gerbino è stato da un lato parecchio critico perché [img4]diceva che la struttura del romanzo non reggeva, perché lo sviliva come personaggio, dall’altro lato invece era contento perché aveva potuto fornire un resoconto definitivo sulla storia di Mondo Beat.
La prima volta che l’ho incontrato, la prima cosa che gli ho chiesto è stata: ma come fai a vivere? Perché la filosofia beatnik era basata sull’anticonsumismo, sull’assenza di proprietà, sulla logica del baratto e di mettere in comune tutti i beni. Ecco lui vive ancora così, anche in una società così cambiata come quella dei nostri giorni, e lui mi ha spiegato che si è inventato questa nuova moneta che sono i suoi quadri. Ha ancora quel famoso marsupio, che lo ha accompagnato in tutti i viaggi, e gira solo con quello, ancora adesso, a 66 anni, continua a viaggiare senza una lira.
Sopravvive così, grazie ai suoi quadri e alla sua capacità di narrare storie. Quando è in extremis, lo soccorrono i quadri, tira fuori dal marsupio le 3 boccette dei colori base, un pennello e si fa trascinare dalle muse. Comincia a comporre degli schizzi ad acquarello, sul genere Mario Schifano, sono quadri astratti, colorati che vagamente ricordano ambienti tropicali. Intorta le persone che incontra, poi è stato anche 70 volte al Maurizio Costanzo Show, quindi è abbastanza conosciuto, è “famoso” come dice lui, allora riesce a vendere le sue opere. Gliel’ho visto fare con i miei occhi, in un paesino sperduto del Madagascar ha venduto due quadri a dei turisti della Valle d’Aosta! Il ricavato, metà l’ha tenuto per sé, per mangiare e per rimanere lì un’altra settimana, metà l’ha messo a disposizione di tutto il paesino facendo una grande festa. Quindi la filosofia beatnik gli è rimasta dentro e la pratica ancora, e credo che questo sia un suo grande pregio.

Se dovessi consigliarci qualche giovane autore, magari italiano e poco conosciuto, chi ci suggeriresti? E invece un classico, una lettura fondamentale?

Per quanto riguarda la letteratura italiana, trovo che ultimamente si stia vivendo un buon momento. A me piacciono tanto i Wu Ming, e poi Aldo Nove, Valerio Evangelisti e Massimo Carlotto, di questi autori sono diventato anche amico, e credo che stiano facendo un ottimo lavoro d’intreccio tra narrativa e ricerca storica. Due libri dico sempre che per me sono fondamentali: uno è Viaggio al termine della notte di Céline e l’altro è l’Autobiografia di Malcom X di Haley, sono due libri che per la mia formazione sono stati importantissimi. E poi c’è un terzo autore, Nanni Balestrini con i romanzi Gli invisibili e L’orda d’oro. Questi sono i libri con cui sono cresciuto e che ho riletto più volte. Céline, con la sua sperimentazione e la sua capacità di trascrivere le sensazioni che sentono due persone quando parlano a quattr’occhi, trovo sia veramente unico. Certo, gli altri libri sono registrazioni, ma dalla registrazione gli autori hanno tratto romanzi formativi eccezionali.

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