Storia di un eroe “americano”
Mettersi in viaggio per incontrare il proprio presidente: forse l’incipit di nessuna storia potrebbe essere più “americano” di questo, visto e considerato il ruolo che la figura presidenziale incarna e riveste in molti film made in Usa. Questa volta, però, il protagonista non è un uomo bianco della classe media, magari armato di bandiera a stelle e strisce, che si mette in viaggio per incontrare il suo leader, bensì un immigrato musulmano, per di più affetto da una forma di autismo, che studia percorsi e cartine come farebbe un terrorista per raggiungere il presidente e consegnargli un messaggio: “il mio nome è Khan e non sono un terrorista”. Messaggio dal significato più forte di una bomba che esplode, perché siamo nell’America all’indomani dell’11 settembre, quando essere mussulmano significa essere un kamikaze per antonomasia. Ma Khan non capisce cosa significhi essere un terrorista “per antonomasia”, non comprende figure retoriche e giochi di parole, per lui esistono unicamente due categorie di persone, i buoni e i cattivi. Questo, ad uno spettatore più smaliziato, potrebbe quasi sembrare un eccesso di ingenuità; in realtà, basta guardarsi intorno, leggere i giornali, accendere la tv per capire come tutte le diatribe del mondo siano riconducibili a tale dicotomia e come i confini tra bene e male siano labili, inconsistenti, tanto che è sin troppo facile passare da una parte all’altra della barricata.
Poiché nessuna verità è ovvia, Khan si arma del suo zaino e, simile ad un pellegrino, percorre l’America per ricordare al suo paese che lui non è un terrorista, né lo era suo figlio adottivo, ucciso a causa del suo “cognome musulmano”, né lo è sua moglie Mandira, che nel dolore lo incolpa della morte del figlio e nella disperazione lo sfida a compiere quella che, a prima vista, non è altro che un’assurda missione. Ma ogni eroe americano ha una laica missione da portare a termine: Khan accetta la sua e parte, perché è convinto che essere mussulmano non sia una brutta cosa, perché è convinto di essere buono. Non è stato il presidente Bush, a seguito dell’attacco alle due Torri, a dividere il mondo in paesi buoni e nuovi imperi del male? Ebbene, Khan vuole rivendicare la sua appartenenza ai buoni, il suo diritto ad avere un nome mussulmano e a pregare in arabo per i morti dell’11/09. Perché, ed è lui stesso a ricordarlo, Allah è innanzitutto misericordioso.
Tacciare questo film di buonismo e banalità sarebbe troppo facile e assolutamente errato, poiché un giudizio simile non terrebbe conto del profondo messaggio di pace che il regista ha voluto comunicare, oltre che dell’indiscutibile bravura degli interpreti, in particolare di Shah Rukh Khan, che offre una verosimile interpretazione di un malato di autismo senza, però, caricarla di eccessi retorico-teatrali. Ma, al di là del messaggio di pace, guardare un film come Il mio nome è Khan significa, innanzitutto, godersi una bella storia d’amore: l’amore di una madre per il figlio disabile; l’amore di Khan per Mandira (romanticissima la scena in cui le chiede di sposarlo, mostrandole una San Francisco che, coperta dalla nebbia mattutina, sembra quasi una città incantata); l’amore per l’umanità intera senza distinzione alcuna. Forse ad alcuni le parole cuore e amore sembreranno abusate in questo film, scontate quasi, ma non dobbiamo dimenticare che già il grande poeta Umberto Saba affermava che si trattasse delle parole con cui comporre la rima più facile e più difficile del mondo.
A cura di Saba Ercole
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