Ma che rivelazione!
Due battute in particolare possono mettere lo spettatore nella condizione di stringere un legame molto forte e significativo con Porco Rosso di Hayao Miyazaki, gioiello tenuto nascosto per diciotto anni. In Italia. La prima la recita il protagonista Marco Pagot, «Meglio porci che fascisti», e sembra spingere il film verso una direzione squisitamente sentimentale e dichiaratamente politica. E un po’, è così. Porco Rosso e Marco Pagot inseguono la libertà, la afferrano e la modellano secondo i propri valori, cioè la rappresentano alla loro maniera galleggiando tra le nuvole, sfrecciando in un italianissimo blu dipinto di blu. In questo istante, con quella frase, Marco si “rivela” per la prima volta, cioè apre totalmente il proprio cuore manifestando il disgusto nei confronti di chi vorrebbe sottrarre la libertà di azione, pensiero e parola. Una battuta che unisce, o per lo meno avvicina, la tipologia standard dei cattivi di Miyazaki (cialtroni o pericolosi che siano) ad una malvagità storica, quella del nazifascismo che sta per abbattersi nel mondo di Marco, che nel film, si vede per pochi, drammatici istanti (ma che incide sulla vicenda. Basti pensare al ruolo delle donne operaie nell’officina Piccolo di Milano). Da questo momento, Porco Rosso, segue una rotta insolita, rocambolesca e, ostinatamente, mantiene sempre aperto il confronto tra quel tipo di malvagità e la forma tipica che Miyazaki illustra come una manifestazione di egoismo e di scarso rispetto delle opinioni, i desideri e le necessità altrui.
Marco ha dei desideri e dei ricordi. È un pilota col cuore ferito e col volto trasformato (ma poi, forse, è solo quello che vuol far vedere…), sfigurato, disgustato dal genere umano e da se stesso. La seconda battuta, «Oh, mio dio, non posso crederci!», è nel finale e il protagonista si “rivela” per la seconda volta. La recita Curtis, il pilota avversario di Porco Rosso, dopo che Marco riacquista la sua originale fisionomia. Ma lo spettatore non vede. Non può guardare negli occhi Porco Rosso, può solo immaginarlo perché la trasformazione avviene fuori campo. Può solo fantasticare sui suoi lineamenti (anche perché non lo ha mai potuto vedere, nemmeno quando compare in una foto del passato, poiché il suo volto era sfigurato/cancellato da una matita) senza essere costretto ad accettare soluzioni comuni, condivise, generiche. Miyazaki così facendo eleva il suo cinema ad un’esperienza di forte immedesimazione, introspezione e arricchimento esperienziale. Attinge anche qui dal proprio passato (la guerra e il dopoguerra segnarono profondamente la crescita del giovane Miyazaki e della sua famiglia proprietaria della ditta Miyazaki Airplanes che costruiva componenti per aerei in tempo di guerra e pure in tempo di pace). Anche in Porco Rosso, nonostante il suo cinema prenda le distanze spesso e volentieri dal cosiddetto “genere formativo”, sembra intenzionato a far vivere un’esperienza educativa/formativa non tanto al suo protagonista, quanto al proprio spettatore, chiamato a mettersi in discussione e forse a sentirsi, alla fine, migliore di prima. Perché, anche qui, si percepisce fortemente la presenza di quello stato d’animo eternamente in bilico, talvolta ambiguo e fatale, che riesce a mescolarsi con i codici dell’arte e della letteratura nipponica: una malinconia del bello e del fugace, che affascina, scuote, irrompe e mette in disordine il fragile sistema delle convinzioni umane, e a questo punto, suine.
Di Porco Rosso hanno scritto in tanti (tra gli altri, bello il libro di Anna Antonini, L’incanto del mondo – Il cinema di Hayao Miyazaki, per Il principe costante Edizioni), perché in tanti hanno apprezzato in questi anni il genio espressivo e sentimentale di Miyazaki. E gli aspetti da sottolineare, ogni volta che si guarda un suo film sono molteplici (qui non si è affrontato il ruolo delle donne, lo stile, la meticolosità e il realismo nel tratteggiare i paesaggi). L’assurdità di distribuirlo in Italia solo nel 2010, amplifica ulteriormente l’imbarazzo. Certamente, ora, avrà la possibilità di essere amato non più solo dai (tanti) fedelissimi. Una storia d’altri tempi che fa sognare coi piedi per terra.
Curiosità
Come tutti i film dello Studio Ghibli, anche Porco Rosso è stato un clamoroso successo in Giappone. Il premio come miglior lungometraggio animato conquistato al Festival di Annency ha contribuito al successo europeo di Miyazaki. Il nome del protagonista è un omaggio all’animatore italiano Marco Pagot, figlio di Nino, uno dei pionieri del cinema d’animazione. Pare che Porco Rosso sia stata per Miyazaki una delle produzioni più complicate e faticose da portare a termine. Si parla da tempo di un ipotetico sequel di Porco Rosso ambientato durante la Guerra civile spagnola.
A cura di Matteo Mazza
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