Lo spirito della sopravvivenza
Prima del film, forse, questa volta, è meglio mettere gli occhi davanti alla realtà delle cose. Prima delle immagini, quindi, gli uomini. Nel testamento, che si può leggere interamente nel libro Più forti dell’odio, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, di Frère Christian de Chergé (priore della comunità, è stato l’animatore del cammino spirituale che ha portato la comunità ad accettare lucidamente l’eventualità del martirio) si leggono parole importanti che potrebbero servire allo spettatore per inquadrare meglio anche il personaggio interpretato dall’attore Lambert Wilson. Dichiarazioni che coincidono con l’identità del monaco francese, persona aperta al dialogo, alla pace e al dono di sé: «Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese». Oppure ci si potrebbe soffermare sulle riflessioni sulla fede che in questo film hanno un ruolo fondamentale: «La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito». Ci sono anche considerazioni relative al peso del pensiero integralista, oggi di grande impatto attuale: «Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio. Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse, chiameranno «grazia del martirio», il doverla a un algerino, chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam. So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. E’ troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti».
Tenendo presente anche questi aspetti umani ci si può avvicinare a Des hommes et des dieux del regista francese Xavier Beauvois, un film intelligente e coraggioso che racconta la storia dei monaci benedettini scomparsi nel 1996 in Algeria rapiti da un gruppo di estremisti islamici (appartenenti al GIA, Gruppo Islamico Armato) e poi uccisi. Nonostante il realismo misurato e la fotografia contenuta e il persistente rigore estetico siano la scelta stilistica più evidente ma assolutamente coerente, il film abbandona presto il semplice nozionismo di cronaca. Beauvois preferisce insistere sul prima, sui fatti che accompagnano i monaci, e lo spettatore, al tragico giorno della sparizione e uccisione. Non si concentra sul mistero da risolvere, piuttosto sulla costruzione della tensione molto genuina e rischiosa che permette di immedesimarsi coi personaggi, coi loro dubbi e paure. Beauvois privilegia l’intimità dei suoi monaci che ben presto fanno emergere il loro lato più umano e genuino senza nascondere la fatica e la fragilità di fronte all’orrore della guerra.
Un film coraggioso per tre motivi. Primo, è un dialogo. Perché racconta intelligentemente e con cautela il rapporto tra cristiani e musulmani che condividono gli stessi tempi e spazi. Un certo didascalismo non pregiudica la coerenza dell’impianto. Secondo, è un film di confine. I sette monaci, dentro e fuori le mura e i corridoi del convento, rappresentano pedine in bilico sul sottilissimo filo della libertà che è ciò che tiene viva la (loro) speranza. La riduzione ai minimi termini delle emozioni lascia affiorare nello spettatore lo spazio della riflessione. Terzo, è un film sulla resistenza, la sopravvivenza, la pace. Non è certamente solo un film religioso, anche se affronta in modo responsabile le problematiche religiose e di fede. Forse è soprattutto un film sul senso civile, sulla necessità di recuperare e scegliere certi valori come appunto la convivenza alla pace. Per questo, e altro, sembra proprio un film che consiglia di accettare la sfida (culturale, religiosa, civile) di non perdere la speranza e di mettersi in gioco, di partecipare. Un invito suggestivo e necessario rivolto a qualsiasi generazione.
Curiosità
Gran Prix du Jury a Cannes 2010, il film è stato un clamoroso successo in patria, dove ha incassato oltre 20 milioni di euro.
A cura di Matteo Mazza
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