Shyamalan e l’ennesimo predestinato
Premessa: se vi aspettate un ritorno al M. Night Shyamalan degli albori di Il sesto senso, siete fuori strada. Se avete la certezza che il regista di origini indiane abbia da tempo perso la bussola, senza possibilità di salvezza, avete comunque torto. Buona parte della critica cinematografica, dalla carta alla rete, ha demolito il film in ogni suo aspetto, ridicolizzando le pretese dell’autore. I fan dell’anime della Nickelodeon di cui la pellicola è un adattamento hanno polemizzato sul presunto razzismo che ha manovrato la scelta di buoni e cattivi, eroi e antagonisti in fase di casting. Detrattori, infine, sono anche quegli spettatori che hanno scambiato il film per una riproposizione della Never Ending Story di Wolfgang Petersen (1984), che si può dire abbia segnato una generazione. Guardiamo all’Ultimo dominatore dell’aria (in origine Avatar: the Last Airbender) con uno sguardo deprivato dei pregiudizi sulle mancate aspettative dell’ultimo Shyamalan e allora vedremo un progresso (rispetto all’ultima fase) e una deviazione di percorso dell’ex regista-prodigio.
Punto primo: con questo film si è finalmente liberato dei retaggi junghiani spiattellati senza pudore in Lady in the Water. Punto secondo: dopo Signs (ormai più noto per la sua parodia) e The Village, impossibili da inquadrare in un genere e pronti a sgonfiare tutta la tensione nel finale, Shyamalan è riuscito a dare forma compiuta e definita al suo lavoro. Punto terzo: l’evidente cliffhanger finale lascia presagire un sequel (in linea con il cartoon da cui è tratto) che, se gestito coscienziosamente, sarà un’ottima occasione per il regista per dimostrare (o meno) il suo valore e la sua visione d’autore, mettendo a tacere le malelingue sul suo conto. Punto quarto: il 3D ottenuto in post-produzione è da considerarsi ormai strategia di marketing accettata, per forza o per volere, anche dai registi più ammirati (vedi il Tim Burton di Alice in Wonderland). Punto quinto: il film è un adattamento di una serie televisiva, onde per cui, se il film si macchia di incongruenze o debolezze narrative la ragione va ricercata in parte nella storia di partenza e in parte in una ricerca di sintesi della stessa che però, occorre ammetterlo, a volte omette fin troppo, sostituendo le azioni con il ripetuto voice-over di Katara e la poesia con morbide dissolvenze incrociate che sembrano rispondere, però, più che a scelte registiche, a escamotage per mantenere la durata del film all’interno di limiti di tempo prefissati.
Il nuovo lavoro di M.Night Shyamalan rappresenta, in effetti, un nuovo stadio nella sua storia artistica: è un progetto che gli sta particolarmente a cuore e lo si vede nel ventaglio di addetti ai lavori scelti per lo scopo, a partire dal direttore della fotografia Andrew Lesnie (Lord of the Rings, Peter Jackson) al curatore degli SFX, Pablo Helman della Industrial Light anf Magic (Star Wars Episode II: Attack of the Clones) fino al compositore Hans Zimmer (Il cavaliere oscuro, Cristopher Nolan). La storia narra sempre lo stesso, universale viaggio del reluctant hero che, dopo il primo rifiuto all’avventura – qui rappresenta dalla missione di “Avatar” reincarnato (una sorta di moderno Siddharta che conosce le arti marziali e mantiene l’equilibrio nel mondo) – prende coscienza della propria missione e si responsabilizza. Proprio il concetto di “responsabilità” attraversa tutto il lungometraggio, nella voce di Katara, nelle azioni della principessa Yue e nell’atteggiamento del generale Iroh, fratello dell’imperatore del regno del Fuoco. Questi semi daranno i propri frutti nel percorso di formazione dei tre protagonisti maschili: Aang, Sokka e Suko, l’antagonista che si redime salvando l’Avatar. Un film decisamente, ma non ostentatamente educativo, da questo punto di vista. M.Night Shyamalan ha scelto di aprire il film sulle stesse immagini del cartone animato e chiunque abbia guardato la prima puntata non può che concordare. Sulle somiglianze tra l’Appa di Shyamalan e il Falcor di Petersen c’è poco da dire, poiché è evidente la fedeltà della rappresentazione della creatura del film a quella del bisonte alato del cartone. Shyamalan sceglie di smorzare l’umorismo tipico dell’Anime, senza comunque risparmiarci una risatina qua e là, specie per accontentare i bambini. Sceglie anche di dare un tono più “adulto” alla storia, crossando tutti i target, certo anche per motivi “strategici”. Insomma, con scenografie pazzesche, riprese aeree mozzafiato girate tra Groenlandia e Pennsylvania e effetti speciali impeccabili (ogni dominatore ha il suo proprio “stile” nel destreggiare il proprio elemento) L’ultimo dominatore dell’Aria fa ammenda di una sceneggiatura a volte un po’ banale nei dialoghi e delle troppe ellissi narrative che spiazzano spesso lo spettatore. Shyamalan ha privilegiato la sintesi, quando invece la storia avrebbe dovuto essere di più ampio respiro. Ma, del resto, rimaniamo in attesa del seguito per potere avvallare queste considerazioni.
A cura di Valentina Vantellini
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