Smettere di sognare non serve a nessuno
A dispetto di ciò che affermano i vari Brunetta & Co., il cinema rimane il miglior strumento per riflettere su cosa è diventato il nostro paese oggi. A differenza della tv, totalmente, o quasi, impegnata a mostrarci ciò che ritiene siamo e dovremmo essere, alla settima arte è affidato il compito di metter fine, anche solo per poco, al gioco delle tre scimmie, per costringerci a guardare i nuovi mostri che siamo diventati. Questo ha cercato di fare il cinema e non sono mancati, negli ultimi anni, film e documentari sullo stato di totale degradazione (sociale, intellettuale e morale) in cui versa attualmente il nostro paese: si pensi, solo per fare degli esempi, a Nazirock di Claudio Lazzaro, sul fenomeno del neofascismo e neonazismo tra i giovani italiani, oppure all’impietoso documentario di Lorella Zanardo, Il corpo delle donne, sulla disgustosa oggettivizzazione e mercificazione del corpo femminile nella tv nostrana. Questo ha cercato di fare anche la musica perché, per citare una metafora utilizzata dallo stesso Ligabue nel film di Gay, essa è lo strumento attraverso cui il singolo (e la collettività) può (possono) guardare nello specchio della propria anima, lo strumento attraverso cui singolo e collettività possono riflettere su chi fossero e su cosa sono diventati.
Cosa siamo diventati: è questa la domanda a cui Piergiorgio Gay vuole rispondere e a cui, soprattutto, vuole che noi troviamo una risposta. Per far questo, il regista, con grande sensibilità intellettuale, parte dalla musica di Ligabue e lascia che le parole delle sue canzoni, unite alle immagini tratte da fatti di cronaca vecchi e recenti, suscitino una serie di riflessioni sull’Italia, su questo paese che ha perduto completamente una sua coscienza civile. A riflettere sono chiamati giovani e adulti, volti noti e meno noti, accomunati dal desiderio di capire perché, per utilizzare un’immagine di Silvio Soldini, siamo oggi così simili ad una barca ribaltata in mezzo al mare. Tra tutti, spicca per acume dissacratorio l’intervento dell’attore Paolo Rossi, che osserva come il male dell’Italia contemporanea sta nel suo essere una nazione di spettatori, che affronta i grandi temi, le grandi problematiche con cui è chiamata a confrontarsi come se stesse guardando una fiction. Spegniamo la nostra coscienza allo stesso modo in cui spegniamo la tv e, come osserva Roberto Saviano, lasciamo che siano gli immigrati clandestini, come quelli dei moti di Rosarno, a ribellarsi alla malavita organizzata, mostrando quell’orgoglio e quel rispetto di sé che noi più non abbiamo. Nella sorpresa e nell’indignazione, dipinta sui volti degli immigrati, per la nostra compiaciuta e comoda rassegnazione al male e al nulla, vi è la consapevolezza, chiarissima a loro ma a noi ancora sconosciuta, che così facendo un giorno anche i nostri nati torceranno il viso da noi. A differenza dei clandestini di Rosarno o della Campania, dunque, noi siamo incapaci di resistere, ovvero, come osserva Don Ciotti, di esistere. Troppo occupati a sopravvivere, in questo paese ci si è dimenticati di essere. E noi siamo solo quando sogniamo.
Proprio quest’ultimo è il messaggio più bello della musica di Ligabue e l’invito che il regista fa al suo pubblico: continuare a sognare, continuare ad essere, continuare a resistere perché “si vede la luna persino da qui”, persino in questa Italia capace di sentirsi unita solo durante i mondiali di calcio, che dimentica troppo in fretta la sua storia e tenta di nascondere la sua totale amoralità. E chissà se in un paese come il nostro, dove gli articoli della costituzione sono proiettati sul maxischermo di un concerto rock ma depennati in parlamento; dove un tempo si andava in massa ai funerali di Guido Rossa e oggi la massa si muove solo per i funerali di Mike Buongiorno; dove “non so se son peggio le balle oppure le facce che riescono a fare”, chissà se non saranno proprio i tanto vituperati sognatori a raccogliere i cocci per ricostruire uno specchio che permetta all’Italia di guardarsi a testa alta. Una vana speranza questa, forse solo un sogno, ma dopotutto “smettere di sognare non serve a nessuno”.
A cura di Saba Ercole
in sala ::