Visionarietà della tragedia
È quasi sorprendente come la vera storia di Mark Yavorsky – cui si ispira My Son, My Son, What Have Ye Done (film “a sorpresa” a Venezia66 e dopo più di un anno distribuito oggi in Italia) – sia già herzoghiana in origine: tratta di un brillante attore e giocatore di baseball che nel 1979 uccise la madre con una spada come nell’Orestea di Eschilo, che aveva interpretato a teatro. Alla sua trasposizione cinematografica Herzog aveva lavorato da 12 anni, senza trovare nessuno disponibile a finanziare il progetto. Fu David Lynch che, in un incontro casalingo con il regista tedesco, decise che la sua Absurdia Production avrebbe prodotto il film, dando vita alla prima (e storica) simbiosi cinematografica fra i due.
Herzog percorre una narrazione filmica tipica delle sue opere, avanzando un’immaginario che oscilla terribilmente fra la periferia attraversata da una intangibile middle class di San Diego (quasi una Twin Peaks lynchiana) e i panorami desolati e naturalistici dell’America Latina (il Perù) con i quali contamina la storia di Mark Yavorsky (qui si chiamerà Brian McCullum). Due periferie estreme, due frontiere di un microuniverso in la cui mancanza del “centro” razionale e pianificatore appare subito un elemento di continuità con l’atmosfera dell’intero film, costruito proprio sull’orrore senza sangue, sull’ossessione senza materialità, sull’omicidio senza il suo perché. La “periferia” emotiva dell’intero film è appunto l’inquietudine, ma manca il “centro” di tale sensazione: l’oggetto della paura. Attraverso le testimonianze della ragazza di Yavorsky (Chloe Sevigny) e del regista di teatro dello stesso (Udo Kier) al detective della polizia (Willem Dafoe) Herzog ripercorre in maniera concentrica l’ultimo anno di vita del protagonista, (de)costruendo la razionalità della vicenda e contaminandola con quella sacralità profetica e quasi divina tipica dei suoi personaggi (riprendendo il discorso iniziato da Aguirre, furore di Dio, del quale lo stesso vero Yavorsky era ossessionato). Gli stessi freeze-frame simulati dagli attori durante il film fanno pensare a umanoidi manipolati da un deus ex-machina misterioso ed imprevedibile, un regista occulto e metafisico che tira le fila di un’esistenza (quella di Yavorsky) condannata ad essere sospesa fra realtà e finzione teatrale, fino al tragico crocevia delle due dimensioni mentali.
Un’altra mano invisibile è poi quella di David Lynch, che seppure non abbia mai partecipato direttamente alle riprese, sembra anch’esso un fantasma onnipresente che attraversa l’oniricità e l’assurdità di alcune scene del film ricomposte in quadro sconvolgente dallo stesso Herzog per descrivere il perimetro psicologico del protagonista. E’ poi la presenza dell’attrice Grace Zabriskie (madre di Laura Palmer in Twin Peaks e madre di Yavorsky in questo film) che fa risuonare ancora di più l’eco lynchiano nell’intera opera. My Son, My Son, What Have Ye Done in definitva è una visione che è anche ricerca costante della tragedia e della sua immagine ambivalente ed ambigua: come in uno specchio di Dioniso ci rimanda ad altre infinite immagini, un gioco di rifrazioni che si rincorrono fondendosi fra tempo passato e tempo presente. Un film che evidenzia la nascita spontanea dei rituali del dramma nella vita quotidiana e che ribadisce in maniera ossessiva l’incomprensibilità della tragedia. Ma anche la sua inevitabile necessità.
Curiosità
Werner Herzog ha realmente conosciuto l’omicida Mark Yavorsky: dopo aver trascorso otto anni in un manicomio criminale di massima sicurezza in Messico, il regista tedesco l’ha incontrato durante la lavorazione del progetto My Son, My Son, What Have Ye Done. Quando è entrato nella roulotte dove abitava, Herzog ha subito notato al muro un poster del suo film Aguirre, furore di Dio in una specie di altarino con le candele intorno ad esso.
A cura di Daniele Lombardi
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