Pio Albergo Stallone
Sylvester Stallone ha organizzato un’autentica ‘Hall of Fame’ radunando una serie di “cariatidi” degli anni Ottanta, da Dolph ‘Ti-spiezzo-in-due’ Lundgren, suo antagonista in Rocky IV (1985), ad Arnold Schwarzenegger, suo vecchio rivale cinematografico con cui competeva a suon di bicipiti, a quel che resta di Mickey Rourke. Un’operazione di nostalgia dichiarata in un delizioso siparietto, fatto di battute ammiccanti tra realtà e finzione. Ne sono protagonisti Schwarzenegger, Stallone e Bruce Willis. Il primo ricorda i combattimenti nella giungla del secondo, che gli ribatte di voler diventare Presidente. Willis, che è il misterioso agente Mr. Church, sottolinea di non essere accreditato nei titoli del film, cosa vera sia per lui che per Schwarzenegger. Ciliegina sulla torta è la citazione della famosa battuta di Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994) sul farsi i «pompini a vicenda».
Ma l’operazione rievocativa va ben oltre e riguarda un intero periodo storico, l’era reaganiana di cui Stallone incarnava gli ideali di machismo e sciovinismo. È un periodo cui gli americani guardano con grande nostalgia. La minaccia sovietica era stata liquidata e gli spettri del Vietnam ormai esorcizzati. Non a caso nel suo squadrone di ‘expendable’, Stallone ha come subordinati Lundgren, che resta nell’immaginario come il pugile sovietico Ivan Drago, e Jet Li, nei panni di un lottatore vietnamita. Era un’America che si sentiva invincibile, dominatrice del mondo. Non a caso la vicenda principale del film si ispira espressamente alla deposizione del dittatore di Panama, il generale Manuel Noriega accusato di narcotraffico, ottenuta dagli Usa nel 1990 con un’operazione militare che è stata poco più che una passeggiata. Era un’America lontanissima dall’insicurezza post-11 settembre. Il commando di Stallone esordisce proprio salvando in extremis degli ostaggi che stanno per essere decapitati, come a dare una rassicurante versione a lieto fine dei video shock dei terroristi iracheni, che tanto hanno sconvolto l’opinione pubblica.
Vedendo il film semplicemente come un action, va ricordato un inseguimento automobilistico mozzafiato alla Friedkin, così come la scena di una scazzottata con Jet Li protagonista. Quest’ultima è resa facendo uso del montaggio costruttivo tipico del cinema di Hong Kong, che consiste nel mostrare velocemente dettagli dell’azione con riprese brevissime, che il pubblico deve assemblare mentalmente. È un segno dell’influenza dei registi profughi, come John Woo, che ormai ha contagiato Hollywood. Tuttavia Stallone, come del resto molti suoi colleghi, dimostra di non aver compreso la lezione dei cineasti dell’ex-colonia britannica, i quali sanno dosare le scene d’azione, intervallandone da momenti di stasi per dare respiro. È la cosiddetta struttura «pause/burst/pause». Nell’intera parte finale de I mercenari, la tensione è invece tenuta sempre alta, tra mitragliate e granate. E il ritmo non può che risultare piatto con gli sbadigli che ne conseguono.
Curiosità
Tra i papabili interpreti del film c’erano anche Jean-Claude Van Damme, Wesley Snipes, Ben Kingsley, Steven Seagal e Kurt Russell. Tutti hanno rifiutato per svariati motivi. Wesley Snipes in particolare, sotto processo per evasione fiscale, non può lasciare gli Stati Uniti e il film è stato girato, per buona parte, in Brasile.
A cura di Giampiero Raganelli
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