Ogni cosa a suo tempo
Le quattro volte è un film inconsueto che costringe lo spettatore a interrogarsi sul senso del tempo e delle immagini. Già con Il dono (2003) Michelangelo Frammartino aveva mostrato la sua predilizione per percorsi cinematografici differenti, lontani sia dal mainstream che dalla compiacenza di molto cinema d’autore talvolta artificiosamente estetizzante.
Per Frammartino, invece, ogni immagine è necessaria, significante ed emozionante. Scegliendo una forma che non è né fiction né documentario Le quattro volte racconta la vita e la morte attraverso quattro cicli di vita nel microcosmo di un villaggio della Calabria: un pastore malato che cura la propria agonia con una pozione fatta di acqua e polvere santa raccolta dal pavimento della chiesa; la nascita di un capretto e la sua vita fino allo svezzamento; la morte di un abete e la sua seconda vita come albero della cuccagna durante la festa del villaggio; il carbone ricavato dalla legna dei boschi per essere consumato nelle case del villaggio durante l’inverno. In apparenza le quattro storie sono dei pretesti per raccontare i modi di vita dei pastori: la superstizione che si sostituisce alla medicina, i momenti di convivialità, le cerimonie religiose che sanciscono la vita collettiva e individuale. Il significato profondo delle immagini di Frammartino, però, sembra essere il senso del tempo. Si tratta di un tempo ciclico, segnato dall’eterno ritorno, grande principio ordinatore di tutti gli elementi della terra che si trasformano l’uno nell’altro secondo la legge scientifica dell’entropia in una catena senza inizio né fine. Ed è proprio il tempo la chiave dell’armonia tra l’uomo e la natura: in un rapporto di fiducia tra l’uomo e la terra l’attesa che gli eventi si compiano – che la legna diventi carbone, che gli alberi e gli animali crescano, che arrivi la morte – non è ansia ma consapevolezza che ogni evento è necessario al ciclo della vita.
Il viaggio geografico e antropologico si rivela un viaggio nel tempo e attraverso il tempo. Il merito delle quattro volte non è quello di spiegare delle abitudini antropologiche o dei processi naturali ma di restituirne lo spirito più profondo allo spettatore. Il capretto che bela, il passaggio della processione con il cane che abbaia parlano semplicemente dei piccoli e grandi miracoli della vita e del rapporto dell’uomo con il cosmo. E, indirettamente, del miracolo del cinema che nella sua forma più semplice sa cogliere delle verità così grandi.
Curiosità
Il cane Vuk si è aggiudicato a Cannes il Palm Dog, il premio della stampa britannica per la migliore interpretazione canina.
A cura di Fabia Abati
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