Il tormento dell’amore
The Last Station non è un film su Tolstoj. Non è nemmeno un film su Valentin Bulgakov (da non confondere con il Michail di Il Maestro e Margherita!), segretario personale negli ultimi mesi di vita dell’acclamato scrittore russo. The Last Station è un film sul tormento dell’amore, sul suo significato più profondo. È in quest’ottica che lo spettatore deve leggere l’ultima pellicola di Hoffman, già autore di alcuni film in costume: un film che prende spunto dalla vicende personali di uno scrittore a tutti ben noto per illustrare in immagini l’essenza dell’amore vero, che – nella buona e nella cattiva sorte, in ricchezza e in povertà, finché morte non li separi – lega indissolubilmente gli amanti, superando gli screzi e, nel caso specifico, la disparità di fede religiosa e di convinzioni sociali.
Il film racconta due storie d’amore parallele: quella consolidata e sofferta tra Tolstoj e la moglie Sof’ja e quella nascente dell’inesperto Valentin e della intraprendente Maša. Due storie che illustrano oggettivamente la nascita dell’amore e il suo percorso irto di insidie fatte di litigi clamorosi, sofferenze sopportate e scontri di idee validate dalla caparbietà nel difenderle; un percorso, però, fatto anche di momenti di ilarità e intimità in cui denudarsi senza vergogna della propria maschera pubblica. Suona strano sentire parlare in inglese un pilastro portante della letteratura russa; sentire esprimere in una lingua pragmatica ed essenziale l’animo russo, immenso e contorto. Eppure, con lo scorrere delle scene ci si rende sempre più conto della forza e del senso profondo che vuole trasmettere la storia, legando la prospettiva anglofona alla Weltanschaung della Russia pre-rivoluzionaria. Non va, in ogni caso, dimenticato il fatto che la scelta di un autore quale Tolstoj, uno dei letterati russi più conosciuto e più vicino (negli anni di Guerra e pace e Anna Karenina) alla mentalità occidentale, è riuscita ad assicurare credibilità al progetto – che trae spunto dal romanzo biografico di Jay Parini The Last Station: a Novel of Tolstoy’s Last Year (Harper Collins, 1990).
Ritorniamo, però, alla struttura narrativa e alle atmosfere evocate dal film. Da un punto di vista visivo Hoffman ci dà il senso degli infiniti spazi della campagna russa, con sprazzi che per analogia ci riconducono al Gogol’ di Le anime morte (come non rammentare il viaggio di Čičikov quando vediamo la carrozza di Čertkov in viaggio verso Jjasnaja Pljana, a caccia dell’anima del vecchio Tolstoj?). Dal punto di vista strutturale, invece, il film – che inizialmente inganna lo spettatore adottando lo stile dei bio-pic/mock-documentary – segue la formula della romantic comedy in una versione “seria”, con toni tutt’altro che leggeri (dallo scontro alla riconciliazione degli amanti). Il finale del film è composto, ma commovente. Soprattutto, è interessante vedere tradotto in immagini, per una volta tanto, l’amore ordinario confrontato con la morte per vecchiaia dell’amato. E questo, assieme alle straordinarie interpretazioni di Helen Mirren (premio come migliore attrice al Festival Internazionale di Roma 2009) nei panni di Sof’ja e di Christopher Plummer in quelli di Tolstoj, è un motivo sufficiente a elevare il film alla potenza, pur nella sua assenza di spettacolarità e di genialità narrativa.
Curiosità
Il film prende il nome dalla stazione di Astapovo, l’ultima stazione toccata dal Tolstoj in fuga da Yasnaya Polyana e, metaforicamente, l’ultima stazione della sua vita. Qui, infatti, morirà nel 1910, all’eta di 82 anni.
A cura di Valentina Vantellini
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