L’assurda comicità della guerra
Quanto può esser grande il dolore di un popolo straniero nella sua patria? È questa una domanda che mai come a seguito degli ultimi avvenimenti giunti all’attenzione dei mass media (si pensi all’attacco israeliano alla nave degli attivisti che portavano aiuti ai palestinesi di Gaza), gli arabi che abitano la “Terra promessa” sembrano voler porre al mondo e, soprattutto, a quell’occidente ipocrita e opportunista che volutamente ignora o strumentalizza la loro tragedia. Tale ipocrisia e opportunismo molto spesso si è riscontrato (e si riscontra) nel cinema, che della Storia è oggi lo specchio più veritiero e più impietoso. Cosa ci racconta la settima arte della “questione palestinese”? La risposta a questa domanda, purtroppo, non può ignorare la componente ideologica e fanatica che da sempre rende difficoltosa una seria, critica riflessione su di un conflitto che pare insolvibile e che non di rado ha dato alla luce film in cui un problema vecchio di anni, e i cui protagonisti non sono unicamente arabi ed ebrei, è stato spesso banalizzato da grande e piccolo schermo nell’immagine di qualche kamikaze dallo sguardo allucinato o di qualche attivista dinoccolato con la kefiah attorno al collo.
Sei anni dopo Intervento divino, Elia Suleiman torna ad attingere ai ricordi della sua famiglia per gettare uno sguardo sulla sua gente, su quei cittadini arabi di Israele divisi tra uno Stato a cui vorrebbero appartenere, ma non è riconosciuto, ed uno Stato a cui appartengono, ma che hanno dovuto riconoscere con la forza. Proprio la sua famiglia, in modo particolare suo padre Fuad, è protagonista di un film che alla narrazione di un episodio, di una vicenda, preferisce aprire delle finestre su alcuni momenti precisi della storia della sua città e dei suoi abitanti. Il ritorno del regista in una Nazareth sconvolta da un temporale che la copre in una fitta coltre di pioggia (simbolo di una città dall’identità divisa, incapace di riconoscere se stessa) è seguito da una serie di flashback che partono dal 1945, anno dell’occupazione armata da parte dell’esercito di Israele, sino a quando lo stesso Elia, ormai giovane uomo, è costretto a lasciare il paese a causa delle sue opinioni politiche. Ma quello che il regista vuole non è mostrare le uccisioni dei civili, la dignità di un popolo calpestata, l’accondiscendenza di molti dei sui concittadini nei confronti dei nuovi dominatori attraverso un tono drammatico e strappalacrime, bensì utilizzando gli strumenti della comicità in puro stile slapstick e riuscendo in questo modo ad essere più efficace di un vero e proprio film di denuncia, senza però rinunciare ad un sentimento di profonda e sincera pietas. Perché dietro la maschera del comico si nasconde sempre una lacrima. Il saccheggio delle case dei ricchi arabi da parte dell’esercito israeliano diventa, quindi, un divertente balletto a suon di musica; il soldato dal militaresco cipiglio che cerca di bendare Fuad, catturato con l’accusa di fornire armi ai ribelli, si copre di ridicolo perché a causa della sua bassa statura è costretto ad usare uno sgabello; un minaccioso carro armato in assetto di guerra segue con il cannone spianato un civile mentre getta la spazzatura e risponde al cellulare: proprio perché la guerra è assurda, l’unico modo per scuotere spettatori ormai assuefatti al sangue e alla morte è proprio quello di dimostrarne, di rivelarne, l’assurda comicità. Ecco dunque che la donna freddata mentre incita alla lotta israeliani travestiti da arabi o il gruppo di bambine arabe che riceve un premio per la miglior interpretazione di canti ebraici o lo stesso Elia bambino, ripreso dal suo professore perché ha definito l’America una nazione colonialista, sono momenti di comicità assurda, nella migliore lezione beckettiana, che lasciano però spazio a una smorfia di amarezza, ad una sensazione sgradevole.
Il pigiama a righe del vicino dei Suleiman, che minaccia costantemente di darsi fuoco, non è troppo diverso dalla divisa indossata dai nonni, dai padri di molti israeliani nei campi di concentramento e la stessa scena del regista che cerca di saltare con una lunga asta oltre l’alto muro, costruito in Cisgiordania, non è immagine più assurda dell’esistenza del muro stesso. Alle bandiere americane e israeliane date alle fiamme o agli uomini armati, dal volto coperto, Suleiman contrappone volutamente la maschera del comico, il suo volto impassibile, la buffa espressione di chi ha visto troppe cose nella vita per stupirsi dell’assurdo del reale, anche se il reale è una terra occupata, con alle spalle una storia di guerra perenne; al grido di rabbia e di dolore egli contrappone la risata, una risata, si badi bene, non liberatoria né scanzonata. Il sorriso è il mezzo con cui l’occidente è costretto a guardare ciò che si rifiuta di guardare, istiga la riflessione nelle nostre menti abituate agli orrori ma ancora incapaci di carpire l’assurdo che domina il reale. Il sorriso è ciò che ci permette di comprendere che la fine della guerra non è nella forza della armi ma nella comprensione della sua natura: quella di essere uno scherzo, un gioco, incomprensibile e assurdo.
A cura di Saba Ercole
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