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cultura dell'immagine e della parola

Quando la verità mente

Quando la verità mente

Sono passati ormai più di vent’anni da quando, con Mondo virtuale (Speaking Parts, 1989), Atom Egoyan mostrava lo strapotere delle immagini nella nostra società, il ruolo che stavano assumendo di simulacro e di surrogato di emozioni e sentimenti. Il suo cinema si giocava proprio sulla moltiplicazione delle immagini, sulla loro riproduzione all’ennesima potenza all’interno dell’inquadratura. Se, sempre in quel film, sembrava cosa ardita un atto sessuale a distanza, consumato masturbandosi in videoconferenza, ora non si può che constatare che si tratti di qualcosa che milioni di persone fanno in chat. Il mondo virtuale è ormai parte integrante delle nostre vite, ed Egoyan ne prende atto. Catherine può scoprire l’infedeltà del marito da un sms con foto a riprova, l’equivalente dei bigliettini di una volta. E quando la stessa Catherine origlia nella stanza del figlio, collegato in chat con la ragazza, è la seconda, pur trovandosi fisicamente altrove, ad accorgersene. Questa è la normalità.

Coerentemente Egoyan gioca, con Chloe, sulla sottrazione di immagini. Tutta la liason tra David e Chloe non viene vista, a parte un fugace flashback, ed è solo raccontata da lei. Sono immagini che però potrebbero essere false, frutto di menzogne. E’ lecito dubitare di quello che dice Chloe, tanto più che David sembra non riconoscerla quando la vede. Eppure anche le immagini reali, nella loro oggettivazione fotografica, possono mentire. Sia perché ambigue e mal interpretate, come quella sul cellulare, sia perché “impossibili”, come quella che Chloe, che dichiara poca dimestichezza con internet, manda a Catherine via mail. È una foto che le ritrae avvinghiate a letto, ma nessuno può averla scattata. Solo il regista-demiurgo può averlo fatto. Una situazione un po’ come quelle di Strade perdute (Lost Highway, David Lynch, 1997) e Niente da nascondere (Caché, Michael Haneke, 2005). Il percorso di Haneke su realtà e rappresentazione è peraltro molto vicino a quello di Egoyan.

David sembra non averla mai vista. È lecito dubitare dell’esistenza stessa di Chloe, che si toglie di scena provvidenzialmente dopo aver avuto una funzione catartica nella famiglia, in cui tutti sono cambiati dopo essere entrati in contatto con lei. Forse è un angelo come lo era il visitatore, Terence Stamp, in Teorema (Pier Paolo Pasolini, 1968), in cui giocava lo stesso identico ruolo? Centrale è il cambiamento del personaggio di Catherine, magistralmente reso da Julianne Moore. E’ una ginecologa che probabilmente non ha mai avuto un vero orgasmo, come la sua paziente, cui non sa cosa consigliare. Ha una reazione moralistica di disapprovazione quando vede il figlio andare a letto con la fidanzata e reagisce raccomandando loro di usare le dovute precauzioni. Sarà un rapporto lesbico con la conturbante Chloe a funzionare da terapia sessuale. Può sembrare un facile psicologismo, ma in realtà è frutto dell’estremo distacco, da etologo, con cui Egoyan studia i comportamenti umani.

Curiosità
La casa dei protagonisti è un gioiello dell’architettura contemporanea, la Ravine House di Toronto, dell’architetto Drew Mandel. Immersa tra gli alberi di un’antica foresta, è’ costituita da una serie di cubi di vetro sospesi su un precipizio.

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