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Sulla scia degli X-Files

Sulla scia degli X-Files

Decenni dopo la poesia visionaria degli Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg e sulla falsa riga della serie cult ideata da Chris Carter, i memorabili X-Files (1993-2002), gli alieni tornano più subdoli e minacciosi che mai: entrano nelle nostre case dalla porta sul retro, nella notte, sotto forma di ingannevoli occhi di civetta, che ci osservano e manovrano le nostre menti e i nostri corpi e comunicano attraverso una lingua fatta di arcani rumori, attestati da registrazioni su nastro. Il contatto che stabiliscono con l’uomo si eleva al “quarto tipo”: è quello dell’”abduzione”, vale a dire il rapimento alieno, lo stesso che la scettica agente Scully ha sempre tentato di negare per compensare razionalmente le teorie complottistiche sostenute dal collega Mulder. Ma cosa c’è, vi chiederete, di nuovo in questa pellicola che sfrutta la bella immagine di Milla Jovovich, nei panni prima di sé stessa e poi di una psicologa, come testimonial di accadimenti paranormali? In fondo poco, anche se il gusto che rimane in bocca dopo la visione non è ben definito.

Se andate al cinema dopo avere visto il trailer del film, spererete di spaventarvi e in piccola parte ci riuscirete. Se credete al viral marketing sulla storia di una certa psichiatra dell’Alaska di nome Abigail Tyler, potreste domandarvi se crederci o no, così come è suggerito nell‘epilogo del film “inchiesta”, che sprona lo spettatore a prendere una posizione sull‘accaduto. Se, invece, conoscete i meccanismi della fiction e il potere autoreferenziale e metalinguistico del mezzo audiovisivo rimarrete delusi o sdegnati da una ridondanza falsa e inutile, in cui la ricostruzione dell’evento “reale”, come in un documentario della BBC, coesiste, per il tramite di abusati splitscreen, alla visualizzazione di materiali di repertorio che, per una eccessiva rielaborazione fotografica del girato, paiono più cimeli degli anni Settanta, che materiali di archivio degli inizi del 2000, quali intendono essere. Olatunde Osunsanmi, che non ha molta esperienza alle spalle, ha voluto scommettere su questo mockumentary sull’onda del successo di The Blair Witch Project e Cloverfield o anche [Rec], senza considerare quanto lo spettatore odierno sia smaliziato e poco ingenuo. Per questo motivo il film riesce a reggere nella prima parte, quando ancora la curiosità è tanta e l’attesa pure. Rimane, comunque, il fatto inconfutabile che un’attrice come la Jovovich sia, fin dall’inizio, difficilmente credibile nella parte interpretata, mentre la “vera” Tyler inizia, dopo poco, a dare l’impressione di somigliare più a una internata di un manicomio, che a una scienziata razionale e lucida in grado di esaminare oggettivamente i fatti (diciamo pure che il patetico doppiaggio italiano non fa che rincarare la dose, visto che contribuisce ad avvallare questa sensazione). La seconda parte del film, da cui ci si aspetta, perciò, qualcosa di nuovo – e possibilmente verosimile – diventa, ahimè, una serie di corpi posseduti, registrazioni video “amatoriali” inspiegabilmente interrotte sul più bello (ma anche l’interferenza è prova di una presenza aliena!) e parole sumeriche senza senso pronunciate da una presunta entità aliena pre-esistente all’uomo e forse persino sua malvagia e possessiva creatrice.

Dobbiamo dar conto di un fatto, però. Il film è uscito nelle sale italiane qualche settimana prima dell’altro atteso low budget movie, l’inquietante Paranormal Activity, molto meglio architettato e talmente realistico che chi riesce a sopportarne la tensione esce dalla sala con lo stomaco sottosopra senza nemmeno avere visto una scena cruenta o per lo meno scioccante. Il quarto tipo, quindi, almeno in Italia, ha sofferto in parte l’oscuramento da parte dell’altro film, forte del supporto di una campagna internet e una strategia mediatica più potente e insistente (pensiamo, per esempio, al fatto che, almeno nelle sale americane, la pellicola veniva proiettata rigorosamente solo a mezzanotte). Non basta, però, questa giustificazione per promuovere la pellicola. Sarà che i tanti X-Files del passato ci hanno abituato ad atmosfere magari meno claustrofobiche, ma altrettanto inquietanti. Sarà che la nostra fame di misteri irrisolti sui contatti con forme di vita extra-terrestri, abilmente occultate dalla CIA, è già stata ampiamente saziata… Ma anche il finale, in cui il pubblico è chiamato a fare una scelta, diventa solo un artificioso call to action che non riesce a compensare gli squilibri narrativi di una storia che vuole spacciarsi per vera a tutti i costi, ma non lo è. Il cinema scoccia quando vuole farsi operazione “verità”, perché fa acqua da tutte le parti. Al Quarto tipo si può almeno perdonare il fatto che quando si vuole spaventare lo spettatore ogni mezzo è lecito.

Curiosità
Il paese dell’Alaska in cui è ambientata la vicenda ha sofferto veramente per la scomparsa misteriosa di molti suoi abitanti e per questo ha condannato il film di Osusanmi per l’insensibilità dimostrata nello sfruttare una tragedia per meri fini lucrativi.

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