The passion: intervista a Don Aleardo
Volevo riproporle una domanda alla quale Yasha Reibman ha risposto solo in parte. Secondo lei come può essere interpretata la presenza di certi elementi, il genere splatter e film da guerra, all’interno di un film “religioso”. Quali possono essere le conseguenze, volute o no?
Gli elementi di genere fanno parte oramai di un’esigenza scenico spettacolare, oggi lo spettacolo se vuole avere presa sullo spettatore deve essere lirico-verista; dunque: sangue-spruzzo. D’altronde nelle tradizionali rappresentazioni sacro-popolari si cerca spesso l’effetto splatter e Gibson ha più possibilità economiche per realizzarlo!
Inoltre per gli abituè delle sale cinematografiche è normale il verismo esasperato con cadute di tono.
Ecco una vera occasione mediatica per la Chiesa. Secondo lei la Chiesa ha mantenuto una posizione omogenea nei confronti del film? Quale? Come ne esce e quali sono le indicazioni da trarne?
E’ difficile trovare posizioni omogenee nella Chiesa, perché per questo genere di critiche bisogna tener conto dei molteplici condizionamenti culturali, dottrinali, emozionali e sentimentali. Tanti fattori che possono convergere, ma non omologarsi.
Indicazioni da trarne, suppongo in senso pastorale, non più di quelle che si traggono dalla partecipazione ad una sacra rappresentazione popolare: sensazioni che inducono ad una riflessione personale sul fatto.
The passion esce nel mondo e in particolare in Italia, in due momenti: uno storico, di crisi nel dialogo inter-religioso e uno contingente, durante le vacanze pasquali. Sono entrambe delle coincidenze?
Le coincidenze si fanno accadere, ma spesso non hanno l’effetto desiderato; se voleva esserci nel film qualcosa che inficiasse il dialogo inter-religioso, secondo me non c’è riuscito minimamente, se non su coloro che, fondamentalisti, vedono il diavolo dappertutto. Farlo uscire di periodo pasquale mi sembra commercialmente azzeccato!
Secondo lei quale messaggio si può leggere esplicitamente e implicitamente dal film? Ci parli del Gesù di Gibson.
Il messaggio immediato è quello dell’uomo Gesù che è venuto per fare “nuove tutte le cose”, lo dice in un innesto di dialogo Gesù alla Madre in una statio della via crucis.
Tra il lordume sanguinante e polveroso della flagellazione e della crocifissione, i flashback netti e patinati della lavanda dei piedi e dell’ultima cena , il contrasto conferma la novità portata da Gesù; lo ritroveremo nuovo e pulito ma con le mani forate nell’ultima inquadratura del film.
Implicitamente ho trovato un continuo riferimento e parallelo con brani ed episodi classici dell’antico testamento, con testi della tradizione cattolica e con la tradizione liturgica popolare, che tutto sommato non stonano così tanto anche se a volte grotteschi.
Il Gesù di Gibson è quello della tradizione pietista che vede l’uomo dei dolori esperto nel soffrire, obbediente al Padre, sicuro della sua missione di perdono e tenace nello sconfiggere il maligno. Nulla di innovativo o di interpretativo; piuttosto un documentario con tutti i suoi limiti.
Vorrebbe farne un uomo-super, ne esce un uomo-forte perché vero uomo che confida in Dio.
Gesù è attore primo e non primo-attore di un dramma dove ognuno fa la sua parte al primo posto.
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A cura di Fabio Falzone
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