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cultura dell'immagine e della parola

Intervista a Matteo Garrone

Matteo, tu sei partito con un cinema documentaristico, quasi di denuncia sociale, per poi passare ad un tipo di cinema di narrazione, più “psicologico e cerebrale”. Se c’è stato, questo cambiamento com’è avvenuto? Secondo te, le tematiche sociali espresse nei tuoi primi film si possono ritrovare, magari sotto diverse spoglie, negli ultimi due?

I miei film sono solo apparentemente di denuncia sociale. La denuncia sociale non è mai stato il centro del mio lavoro. L’elemento documentaristico invece c’è sempre. Nei miei primi corti questo elemento magari è più esplicito, un desiderio che si manifestava nel raccontare, attraverso gli immigrati i cambiamenti che avvengono in Italia. Ma non avrei mai ambientato Silhouette (1996, cortometraggio, 16mm, colore, 20’) , il mio primo cortometraggio, in una strada qualunque. La mia era una ricerca di storie, partendo da immagini, atmosfere, che avevo vive nella memoria. Mi interessavano, per esempio, quelle ambientazioni della campagna vicino Roma, quasi oniriche.
È qualcosa d’altro che cambia da L’imbalsamatore (2002, 101’) in poi. I primi film in qualche modo cercavano una storia, inseguivano dei personaggi e delle tematiche, che lentamente mi portavano, seguendoli, quasi pedinandoli, dall’interno di certe atmosfere, alla costruzione di una storia. Ciò avveniva durante la lavorazione stessa del film. Con gli ultimi due film invece, il processo si ribalta, parto da una storia, per poi arrivare ai personaggi, alle atmosfere e alle tematiche che affrontano.
Quindi credo che nel mio cinema ci siano stati due punti di partenza del lavoro diametralmente opposti, che non hanno avuto molto a che vedere con la denunica sociale.
L’approccio, il modo di lavorare invece rimane sempre lo stesso: l’elemento documentaristico, lo ripeto, è sempre presente. Il fatto, ad esempio, che i miei personaggi interpretino dei ruoli vicini alla loro personalità (vedi Vittorio Trevisan oppure Ernesto Mahieux in L’imbalsamatore); è un fattore appunto documentaristico. Cambia invece molto la dimensione produttiva.
In sintesi: ora parto da una storia, da una sceneggiatura a cui lavoro molto, mentre in precedenza la sceneggiatura era semplicemente una scaletta.

A proposito di sceneggiatura, parliamo in particolare del ruolo di Vitaliano Trevisan, scrittore, interprete principale del tuo film e cosceneggiatore. È nata prima la collaborazione alla sceneggiatura o prima l’idea di utilizzarlo come attore?

All’inizio l’idea era quella di farlo collaborare come sceneggiatore, poi, praticamente subito, abbiamo deciso di farlo diventare anche protagonista.

Infatti diversi elementi del personaggio, rispecchiano dei tratti personali dell’attore – non mi riferisco ovviamente alle patologie di cui soffre –. Ho notato che ci sono elementi del personaggio comuni all’attore (entrambi si chiamano Trevisan, il nome è simile e con la stessa radice, entrambi hanno come hobby la batteria jazz etc.): un fatto curioso, come lo spieghi?

Sì, certo. Questo ritorna spesso nei miei film. Anche in L’imbalsamatore era presente: c’erano diversi aspetti del carattere di Ernesto Mahieux, che si trasferivano direttamente nella personalità di Peppino Profeta, cercando di dare un’immagine di lui più vicina alla realtà. L’elemento documentaristico di cui ti parlavo prima rimane sempre. Adesso lavoriamo molto di più, e in maniera differente, sulla sceneggiatura.

Entrambi gli ultimi tuoi film sono ispirati da fatti di cronaca.
Truffaut diceva che la più grande ispirazione per i suoi film gli derivava dall‘attenta lettura della cronaca sui quotidiani.
Per te è una posizione estetica o semplicemente una coincidenza?

La posizione estetica è legata a come racconti una storia, più che a quale storia scegli di raccontare. In questo caso, la storia ci sembrava interessante come punto di partenza. Ma quello che conta è come riesci a raccontarla, le immagini che riesci a creare.

Ho letto che il tuo apprendistato è legato alla pittura e trovo un’attenzione cromatica, quasi pittorica nel tuo cinema.
C’è una sequenza nella tua ultima opera in cui una fusione è rovesciata e la macchina da presa rimane fissa a inquadrare il raffreddamento, il cambio di colore. Sembra di essere più dalle parti del dripping di Pollock o di certi lavori di Burri che in una fonderia… Penso che ci siano registi vicini al teatro e al melodramma (Visconti); altri alla fotografia (Kubrick); altri alla poesia (Pasolini); al romanzo, alla musica, altri alla pittura (Fellini).
Per te quanto è importante la tua origine pittorica, che influenza ha la pittura nel tuo cinema?

Sì, tutte le cose che hai citato, giustamente, sono state molto importanti per la mia formazione: il teatro, la pittura, la fotografia. La pittura è l’elemento centrale per me, nel momento in cui decido di raccontare una storia. Tuttavia come formazione oltre alla pittura ha giocato un ruolo molto importante la fotografia e il teatro. Mia madre era fotografa e io da ragazzo mi dilettavo molto. Anche quando faccio un film, mi preparo sempre a un lungo lavoro di costruzione fotografica.

Infatti, caso piuttosto raro nel nostro cinema, sei anche operatore di macchina. Come mai questa scelta?

Per me è importante stare in macchina. Per me i ciak sono davvero irripetibili. Sono momenti unici, per come lavoro io. Quindi, come improvvisano gli attori, devi improvvisare anche tu che hai in mano la macchina da presa. Se avessi una persona che sta in machina, appena gli chiedo di cogliere all’istante dei movimenti che mi piacciono, tutto si perderebbe.

C’è un grande rigore formale nel tuo cinema: cosa rara oggi, sembra che tu ti chieda dove posizionare la mdp ad ogni inquadratura. C’è quindi una grande attenzione per il linguaggio. Quali sono i suoi “maestri” in questo senso?

Sì, dietro la macchina da presa ci passo molto tempo. Per quanto riguarda i maestri invece… No, non ce n’è uno in particolare, ce ne sono diversi, ma sinceramente non mi sento di suggerirne alcuni.

L’imbalsamatore e Primo Amore, sembrano due film molto legati tra loro, per stile, linguaggio e tematiche (un rapporto morboso sta alla base di entrambi e s’ispirano a fatti di cronaca); anche se L’imbalsamatore raccontava la storia di un amore inseguito e Primo amore di un caso patologico. C’è un progetto? Una possibile trilogia? Oppure stai pensando ad una commedia?

Guarda, ancora non te lo so dire, ma adesso vorrei scrivere un film che racconti di un viaggio, un road movie.

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Primo amore è una macchina ottimamente oliata dal punto di vista formale, eppure ad alcuni di noi ci ha lasciato meno entusiasti di L’imbalsamatore. In particolare, la componente femminile della redazione lamentava una certa mancanza di sensibilità e compassione verso la figura della protagonista, Sonia. Molte, pur apprezzando il repertorio tecnico, la grande capacità tua di costruire immagini, affermano che Primo amore fa soffrire lo spettatore, lo angoscia forse troppo e che probabilmente non lo guarderanno una seconda volta.

Il personaggio l’abbiamo costruito insieme a lei. Ci tenevo, ovviamente, che lei lo sentisse e lo vivesse in prima pesona. I suoi consigli erano fondamentali, quindi lei ha cercato di seguire un percorso come attrice e come persona. A me, nel film, è sembrato di starle molto vicino anche dal punto di vista umano. Di solito mi capita di sentire esattamente un parere opposto: le ragazze che mi hanno parlato si sono sentite molto partecipi e vicine al personaggio di Sonia, proprio per come il film si evolve, mentre i ragazzi avvertivano un distacco angosciante che lasciava loro un senso di vuoto… In fondo, sono punti di vista.

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