Greeks Do It Better
Una volta Hollywood partoriva film come Tempo d’estate (Summertime, David Lean, 1955) o Caccia al ladro (To Catch a Thief, Alfred Hitchcock, 1955), che sfruttavano le ambientazioni turistiche più a la page dell’epoca come sfondo per avventure, storie sentimentali che coinvolgevano il/la turista con qualche autoctono/a. Ora che il concetto di esotico è ormai decaduto, i film di questo tipo sembrano più delle operazioni commerciali degli enti turistici di questo o quel paese. Il ragionamento è valido persino per un’opera di Woody Allen, Vicky Cristina Barcelona (id., 2008). Tutto, in Le mie grosse grasse vacanze greche, sembra rientrare in un’enorme spottone in favore del paese mediterraneo, a partire dagli imponenti resti archeologici, fotografati con un’estetica da cartolina. E’ da più di cinquant’anni che non veniva concesso a una troupe cinematografica hollywoodiana di fare riprese dentro l’Acropoli. Ci sarà un motivo.
Ma non bisogna nemmeno dare l’impressione che una vacanza in Grecia sia solo culturale. Ed ecco che ti faccio vedere che anche le spiagge sono bellissime, il cibo è ottimo e ci sono dei fantastici ristoranti panoramici. E non finisce qui. Il sole, il caldo, l’atmosfera magica classicistica sono tutte cose che contribuiscono a rendere conturbante il clima, a rilassare i freni inibitori, spianando così la strada a una bella avventura galante. Può succedere così che un anziano vedovo americano, un Richard Dreyfuss quanto mai fuori luogo, possa spupazzarsi a letto due belle ragazze spagnole. Per le spettatrici c’è il “bicipitoso” autista del pullman, che fa capire che la bellezza apollinea non appartiene solo alle statue antiche e che la Grecia è popolata anche di bei manzi in carne e ossa. Tutti i clichè sono presenti, compreso film più celebre ivi ambientato, Zorba il greco (Alexis Zorba, Michael Cacoyannis, 1964), con Anthony Quinn, che più volte si vede in uno schermo televisivo.
Che differenza c’è tra il vedere questo film e lo sfogliare un catalogo di un’agenzia viaggi? L’interrogativo dovrebbe esserselo posto lo sceneggiatore, nell’inventare una storiella esile, che vorrebbe essere una commedia leggera. Ma domina un senso dell’umorismo al cui confronto Boldi e De Sica sembrano Tati. Un’unica scena di Parole, parole, parole… (On connaît la chanson, Alain Resnais, 1997), quella in cui un saccente turista continua a interrompere il cicerone durante una visita guidata, basta a fare piazza pulita di tutti i film con lo stesso soggetto. Inutile dire che il titolo italiano del film, ben diverso dall’originale My Life in Ruins, serve come specchio per le allodole, per sfruttare il successo di Il mio grosso grasso matrimonio greco (My Big Fat Greek Wedding, Joel Zwick, 2002). Sembra quasi un assist per una parodia porno.
Curiosità
Il precedente film hollywoodiano cui fu permesso di girare nell’Acropoli è Il ragazzo sul delfino (Boy on a Dolphin, Jean Negulesco, 1957). La canzone che canta Georgia sulla spiaggia si intitola Never on Sunday e fa parte della colonna sonora di Mai di domenica (Pote tin kyriaki, Jules Dassin, 1960). E’ l’unica canzone greca ad aver mai vinto l’Oscar come miglio canzone di un film.
A cura di Giampiero Raganelli
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