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Intervista a Rolf de Heer, regista di Alexandra’s project


Mr De heer è possibile considerare “Alexandra’s project” come il terzo capitolo di una trilogia (non ufficiale) sulla “famiglia in nero” (penso in particolare a “Bad boy Bubby” e “La stanza di Cloe”, come primi due ipotetici capitoli, film che amo molto); dopo le parentesi de “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore” e “The tracker”?

Io non ritengo sia possibile considerare questi tre film come una trilogia; forse “Alexandra’s project” potrebbe essere il secondo capitolo dopo “La stanza di Cloe” perché “Bad boy Bubby” era stato pensato in un’altra prospettiva. Mentre scrivo non penso razionalmente alla relazione con precedenti film e anche l’ispirazione per Alexandra è avvenuta in maniera differente. L’idea di questo film è partita da una immagine: una donna che parla in una videocamera; non sapevo di più, poteva ancora essere una commedia; poi mi sono fatto una domanda sulla donna: E’ felice? E ho risposto No, e così …. è diventato thriller.

In questo film, anche dal punto di vista della sperimentazione, Lei sembra aver cercato “il cinema puro” e il fatto che abbia scelto come strumento il genere thriller appare per un cinefilo un omaggio ad Alfred Hitchcock!

Sono sicuro di essere più influenzato da Hitchcock di quanto penso, ma non direttamente; quando ero piccolo ho visto alcuni suoi film, questo è tutto, ma Hitchcock ha avuto una grande importanza per un’intera generazione di film-makers che hanno a loro volta influenzato molti registi (tra cui me). Quando ho iniziato a “lavorare alla sua (di Alexandra ndr) videocassetta” chiedendomi cosa lei vuole? cosa ci sarà inciso nel nastro? Ho capito che il suo problema era il mio problema: Cosa devo fare per indurre suo marito (Steve ndr) a vedere la videocassetta? Come farlo sedere di fronte alla tv e farlo restare immobile a guardarla? E la soluzione naturale mi è sembrata il thriller!

Tornando alla ricerca del “cinema puro” …

Si, io ho un grande interrogativo nella mia vita: Cosa è il cinema?, voglio dire “Cosa rende qualcosa una esperienza cinematografica? E cosa la rende diversa da un lavoro per la tv?. Perché il cinema è un’esperienza dura e difficile e il cattivo cinema è come la televisione. Io non guardo mai la tv perché non voglio che il mio linguaggio cinematografico sia diluito in quello della tv. Ma è anche una questione di contenuti, di emozioni e del modo di trattare le cose. Quando scrivo mi chiedo spesso: Questo è cinema? per esempio in “Bad boy Bubby” erano presenti diversi temi perché era nella natura stessa del film; ho confrontato questi temi con ciò che tengo sempre scritto su un foglio: questo è cinema?. E solo se la risposta è positiva vado avanti.

e per la “Stanza di Cloe”?

Nel caso di “La stanza di Cloe”, un piccolo film familiare, mentre stavo scrivendo la sceneggiatura ero preoccupato che potesse diventare un soggetto da tv! Allora, prima di iniziare le riprese, ho fatto leggere lo scritto a qualcuno e poi l’ho testato contro il “mio interrogativo” e così l’ho potuto osservare più coscientemente. Il film era all’interno della tragedia greca “Nessuno saprà mai cosa mangeranno gli Dei per colazione”. Tutti i miei film sono ispirati a questo principio.

Questa ricerca sull’essenza del cinema le interessa anche dal punto di vista teorico o da quello filosofico?

E’ qualcosa che mi interessa per riflettere non solo in termini di fare cinema; non penso comunque ad una teoria da trascrivere in un testo ma solo a riflessioni per una mia personale filosofia; anche se non sto lavorando ma sono come spettatore davanti ad un film che mi colpisce io dico “è puro cinema”, è fantastico, e mi chiedo perché, cerco di comprendere l’effetto che ha avuto su di me.

In generale lei ha sempre molta cura dell’aspetto tecnico (illuminazione, angolazione delle inquadrature, colonna sonora, …). Delega molto ai suoi collaboratori o è il tipo di regista che vuole il totale controllo del film?

Il mio metodo è di dare a tutto il cast un preciso input su come vorrei che il film fosse realizzato perché sono io che scelgo le location, gli attori, che scrivo la sceneggiatura e che poi dirigerò il film, ma sarei comunque un folle se non delegassi ai miei collaboratori gli aspetti tecnici che oramai sono altamente specialistici.


La composizione delle figure e dei colori all’interno della casa rendono le inquadrature quasi astratte e immagini come la mano di Bill che entra nell’inquadratura e si posa sul seno di Alexandra fanno pensare a un film surrealista.

Si, è vero vi sono elementi diversi di questo genere; alcuni sono stati introdotti inconsciamente altri sono stati immaginati e inseriti nel corso delle riprese.

“Alexandra’s project” sembra una pellicola girata nello stile del Lynch di “Strade perdute” con crudeli tematiche “alla Fassbinder”! Ha un modello ispiratore?

Mentre sto scrivendo un film o pianificando la maniera di girarlo non utilizzo mai riferimenti ad altri autori. In particolare mentre giravo “Alexandra” non pensavo a quei film; ho visto i primi film di Fassbinder e non ho visto “Strade perdute”; certamente mentre si lavora capita spesso di citare altri autori. Quando cerco la maniera migliore di rendere cinema una sceneggiatura provo a non farmi influenzare da ciò che è stato fatto prima. Qualche volta però anche a me succede, ad esempio per “The tracker” sono stato felice di essere stato ispirato nel ricreare il paesaggio e le atmosfere da “Il buono, il brutto e il cattivo” di Sergio Leone.

Mi ha notevolmente impressionato la sua capacità di analizzare così lucidamente le patologie sessuali; è per lei un tema di approfondimento anche al di là dell’aspetto cinematografico?

Io lavoro duramente per non “intellettualizzare” il mio modo di scrivere perché preferisco lavorare solamente “on feeling” e se quello che scrivo è in questa direzione va bene altrimenti non esito a buttarlo via. Perché se intellettualizzo troppo inizio a costruire artificialmente ed vado contro la mia idea di cinema.

Vi sono elementi autobiografici in questo film e in generale nei suoi lavori?

Certamente, anche se nei miei film sono presenti non tanto riferimenti prettamente autobiografici quanto qualcosa che “viene fuori” dalla mia vita. Io guardo mia figlia e penso: Cosa potrebbe accaderle? Provo a immaginarlo e inizio un nuovo lavoro che prende spunto da ciò che ho intorno ma che non esiste nella mia vita. Mentre lavoro cerco sempre di essere libero e di rimuovere tutto ciò che sono. Quando mi chiedono del personaggio di Steve in “Alexandra’s project” io rispondo che naturalmente in lui c’è qualcosa di me perché io l’ho scritto! Ma c’è molto di me anche in Alexandra probabilmente più che in Steve.

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Lei è in grado, come pochi registi, di trasmettere fisicamente l’umiliazione, la frustrazione e la solitudine dei suoi personaggi a cui sembra legato da un particolare affetto. Sono problemi che Lei sembra sentire particolarmente.

Penso che lei abbia ragione. Io ho un particolare affetto per la gente, per l’umanità. Immagino e scrivo dei personaggi senza giudicarli; cerco di capirli, è solo attraverso la comprensione che si possono sentire le loro difficoltà e le ragioni profonde che le hanno causate.

Sono curioso di conoscere la maniera in cui procede alla ricerca degli attori e il tipo di rapporto che istaura con loro. Trovo che nei suoi film sono sempre incredibilmente espressivi e in simbiosi con la regia, anche quando si tratta di due bambine (Phoebe e Chloe Ferguson per “La stanza di Cloe”).

In Alexandra mentre scrivevo il personaggio di Steve stavo già pensando di scegliere Gary (Sweet ndr) con cui avevo già lavorato (in “The tracker”) e che sapevo sarebbe stato fantastico per questo ruolo non solo come attore ma anche per il tipo di persona che è. Mentre rispondo a questa domanda sto pensando una cosa che non avevo mai razionalizzato fino a questo momento; quando inizio la ricerca del cast di un film non utilizzo mai dei test con gli attori ne faccio loro leggere uno scritto, quello che mi interessa è parlargli, conoscerli. Mentre parliamo cerco di intuire se qualcosa nella loro personalità che possa essere legata al ruolo.

e per il ruolo di Alexandra?

Per la protagonista femminile ho incontrato molte attrici e quando è toccato a Helen (Buday ndr) ho sentito subito che era la migliore per interpretare Alexandra. Non solo è una splendida attrice ma c’è qualcosa in lei che la unisce al personaggio. Con ciascun attore io lavoro con un metodo diverso e con Helen abbiamo discusso molto, per due settimane, notte e giorno. La questione è creare una situazione sul set in cui ognuno crede nell’altro ma in particolare in cui gli attori credano in me. Poi io gli concedo grande libertà, faccio sentire loro che stanno facendo la cosa giusta o, altrimenti, li guido per scoprire la soluzione dentro loro stessi senza suggere come devono recitare.

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