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Nella buona e nella cattiva sorte

Nella buona e nella cattiva sorte

“Padre, se anche tu non fossi il mio / padre, se anche fossi a me un estraneo / per te stesso egualmente t’amerei”. Questa celeberrima poesia di Camillo Sbarbaro, tanto basilare quanto efficace, enuclea il significato profondo del film di Vincenzo Terracciano, solo all’apparenza la storia di un uomo divorato dalla passione per il gioco, ma in realtà un intreccio di sentimenti essenziali, primordiali, quelli di una famiglia, nonostante tutto, tenuta insieme dall’amore. Il regista dipinge questo ritratto sui generis di un interno borghese scegliendo finalmente la Napoli non “gomorroidale” (per rubare la definizione di Castellitto, protagonista del film), bensì quella dei quartieri non a rischio della zona collinare, tranquillizzanti ed egualmente cinematografici su cui, però, non si punta nessun riflettore pronto a gridare all’orrore a allo scandalo.

Protagonisti di questa vicenda, un padre, Franco, pre-pensionato e incallito giocatore, i suoi figli, Giovanni e Luisa, combattuti tra l’amore incondizionato e il disprezzo verso una figura paterna affettuosa ma fallimentare al contempo; Josephine, che dalla Germania si trasferisce per amore in una città che le insegna a non arrendersi e a combattere con tutte le armi, anche le più bizzarre, per permettere alla figlia un matrimonio che non abbia nulla da invidiare a quello della vicina ma, soprattutto, per salvare il marito da un debito contratto con un pericoloso “guappo” del quartiere. Tutto ruota intorno allo spirito di sopravvivenza, alla fantasia e alla cooperazione di una famiglia e dei personaggi che le ruotano intorno, ultimi e talvolta ancora lampanti baluardi di quella napoletanità positiva messa in ombra da tempo da ben altre sfumature. Il film è confezionato come un classico esempio di ottima commedia all’italiana, dolceamara in ripresa dei fasti della nostra orgogliosa tradizione di genere e con un finale per nulla scontato.

L’idea vincente di Terracciano è stata anche quella di un cast non banale: l’affiatamento tra la geniale Martina Gedeck e Sergio Castellitto si riconferma dai tempi di Ricette d’amore (Sandra Nettelbeck, 2001), la scelta di affiancare interpreti non napoletani come Paolo Briguglia a caratteristi come Iaia Forte e Giovanni Esposito conferisce un respiro decisamente nazionale a tutta la produzione. La capacità della Gedeck di inventarsi un proprio linguaggio, un impeccabile napoletan-tedesco, e di restituire tutte le plausibili influenze sul vocabolario e sul carattere con una naturalezza propria soltanto di interpreti formidabili come lei, risulta ancora più lampante se si pensa che l’attrice ha trascorso non più di tre mesi sul set. Pur avendo dato diverse e buone prove in altri generi cinematografici, è nella raffigurazione dell’italiano medio, tenero e irritante, trascurato e sofferente, perfetto emblema dei vizi e delle virtù di un Paese intriso nelle contraddizioni come il nostro, che Castellitto si impone come inarrivabile maschera.

Curiosità
Il film è stato inserito nella sezione Orizzonti all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, purtroppo nella giornata conclusiva della kermesse, quando avrebbe di sicuro meritato maggiori attenzioni.

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