Continuo a sognare. Ma cosa?
La definirei una storia d’amore ambientata nel 1968, un po’ innocua, un po’ ingenua, certamente sincera, ma soprattutto innocua, che tenta di raccontare un periodo fatto di illusioni, belle speranze, forse contraddizioni e disagio. Un ricordo di una società che grazie (anche) ai giovani è cambiata. Ma il film di Michele Placido, dopo il successo di Romanzo criminale, resta un po’ imbrigliato nella nostalgia (forse un po’ sognata, amata, desiderata dal regista, dalla quale non si stacca per un secondo), nella rievocazione di un tempo passato che serve da specchio per leggere il futuro e quindi (pare) il nostro presente. Il grande sogno funziona nella misura in cui si (ri)dimensiona a quello che vuole raccontare e cioè la storia di Nicola (Riccardo Scamarcio) che s’innamora di due passioni: della catto-comunista e borghese Laura (Jasmine Trinca) e della recitazione per la quale lascerà l’incarico nella Polizia. Nicola ha quindi due grandi sogni, due grandi amori. Ma questo aspetto nel film di Placido è tenuto ai margini perché vengono privilegiate altre cose. Come la lotta del movimento studentesco, le prime rappresaglie, le marce per la pace, l’attivismo dei giovani e gli scontri con le istituzioni (scuola, famiglia e Polizia). Un repertorio vasto, sinteticamente rappresentato dal personaggio di Libero (Luca Argentero) che subito s’intreccia alla vicenda sentimentale di Nicola e Laura. Un amore fisico, romantico e politico. Fisico e carnale perché Laura è un modello di proto femminista alle prime armi che scopre (nel senso che svela e conosce) il proprio corpo e la libertà sessuale; romantico perché riporta lo spettatore alle atmosfere di quegli anni, nei cinema in cui si vedeva Mastroianni e in cui ancora si fumava; politico perché non bisogna dimenticare che sebbene il sogno di Nicola di diventare attore si realizzi, quello di amare Laura resterà incompiuto o comunque compromesso, come una sconfitta, una perdita, il segno indelebile (nel cuore e nella crescita dell’uomo Nicola) di un periodo che l’ha definitivamente trasformato.
Il grande sogno vorrebbe raccontare, rappresentare, esprimere e suggerire più cose e più stimoli di quanto non faccia. Il grande sforzo di Placido (che è bravo a dirigere gli attori e loro, di conseguenza, sono bravi) è la cifra della sua passione, dell’amore nei confronti della propria giovinezza, del periodo che l’ha proiettato nel suo futuro carico di speranze e motivazioni. Ma a noi cosa resta?
Difficilmente questo film potrà essere d’ispirazione per la nuova generazione. Sia da un punto di vista prettamente cinematografico, sia da un punto di vista etico, morale, storico, politico, sociale. Perché, in fondo, questo film non vuole muovere le masse. Vuole semplicemente raccontare una storia di ricordi. E se questa storia è ambientata durante la primavera del ’68, bisogna farsene una ragione. Non c’è coerenza nella forma e forse questa rappresenta la nota più negativa. È molto furba una messa in scena che sembra simulare il cinema dei tempi passati, con l’insistente utilizzo della macchina a mano, di salti cromatici, del bianco e nero, e delle sgranature. Ma perché? Sembra proprio un gioco un po’ perverso. A tratti grottesco quando si incappa davanti a certe macchiette (vedi il papà di Laura o di tutta la famiglia di Laura). Ma ripeto, il film è solo una storia d’amore. Solo questo. Non può avere pretese di altro genere. E bisogna farsene una ragione.
Curiosità
Nel cast anche Laura Morante (interpreta una professoressa di teatro di Nicola) e Silvio Orlando (colonnello di Polizia). Placido a proposito del film ha detto: «Avevo iniziato a lavorare a questo progetto con lo sceneggiatore Angelo Pasquini fin dal 2003, ma quando uscì The Dreamers di Bernardo Bertolucci pensai di sospendere la ricerca e la scrittura, convinto che fossimo stati “bruciati” sul film. Dopo aver visto quel film abbiamo capito che non andava ad intaccare tutto quello che avevamo pensato fino ad allora: Il grande sogno sarebbe stato (ed è) diverso dall’estetismo geniale di Bertolucci, ci aggiriamo piuttosto – con la dovuta modestia – dalle parti di di un altro film epocale come C’eravamo tanto amati di Scola, contando sulla presa emotiva e sull’identificazione dei nostri spettatori più giovani».
A cura di Matteo Mazza
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