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Intervista a Bruno Fornara

E’ finita la seconda edizione di Ring, il festival della critica cinematografica. Il successo di quest’anno è stato superiore a quello della scorsa edizione, che già era stato molto buono. Quali sono state le maggiori differenze nell’organizzazione?

Quest’anno abbiamo aggiunto delle interessanti novità. Sono state introdotte alcune cose che non esistevano nella prima edizione, come per esempio Hollywood Party, che è andato in onda in diretta dal palco su Radio3. La seconda novità è stata l’introduzione di quello che abbiamo chiamato shadow boxing: siccome avevamo già le palestre, i round, i match, i gong e le serate con i pesi massimi, abbiamo aggiunto questo l’allenamento che fanno i pugili quando mimano i colpi davanti ad uno specchio. In pratica abbiamo chiesto a dei critici di osservarsi davanti allo specchio del proprio far critica e quindi mettersi in questione rivedendo gli errori che hanno fatto, le cose a cui tengono e così via. Quello che poi è successo rispetto alla prima edizione è che ormai di ring si sono impossessati quelli che vengono a farlo. È una cosa a cui noi tenevamo moltissimo, non ci interessava fare un contenitore dove le cose fossero rituali. Lo stesso avviene con i registi, che vengono e si prendono una serata. Noi gli diciamo dov’è il palcoscenico e gli diamo via libera. Ring infatti vuole essere un luogo dove si fanno le cose una volta sola e basta. È molto diverso da un festival del cinema, dove si può saltare un film perché si sa che lo si potrà rivedere in mille altri modi. Invece qui chi si perde qualcosa non lo può più recuperare.

A proposito dei festival, nel suo shadow boxing a Ring, Steve Della Casa ha espresso le sue perplessità su questo mondo, sostenendo che è a un passo dalla saturazione. Qual’è il suo pensiero riguardo?

Fino ad ora questo sistema sta in piedi, io non sono mai apocalittico e quindi credo potrà continuare. Dieci, quindici anni fa andava molto l’idea che il cinema fosse morto, neanche moribondo, ma che proprio ormai fosse finita. Invece semplicemente il cinema si è espanso enormemente. Sono cambiate le proporzioni dei luoghi in cui si vede il film, le sale si sono spostate nelle periferie con i multiplex, lasciando in città i cinema d’essai, tutti in casa hanno il dvd e questo è un doppio allargamento del film, grazie ai vari making of, documentari ed interviste. Il cinema, insomma, è in fase di espansione, non di restringimento. Il problema dei festival è che i film non sono infiniti, e molto spesso girano di rassegna in rassegna. Anche per questo noi non volevamo fare un festival del cinema. Un esempio emblematico è rappresentato dalle rassegne di corti, che fioriscono molto più di quelle per lungometraggi, e che sono dei circoli viziosi, dato che i registi di corti ovviamente spediscono i loro lavori a più concorsi possibili.

A proposito dell’espansione del cinema. Voi avete deciso di tenere questo festival ad Alessandria, in provincia, e non in città come Milano o Torino. Lei pensa che questo serva a un processo di sdoganamento della provincia in Italia che possa frenare la fuga intellettuale verso le città?

Io penso che oggi la questione città – provincia non sia più sentita come un tempo. Un po’ perché ho sempre vissuto in provincia. D’altra parte ho la fortuna di stare in un posto bello e non capisco perché avrei dovuto spostarmi per fare cinema. Il mestiere del critico oggi lo si fa sostanzialmente con il computer, i film li si vede facendosi arrivare il dvd o andando ai festival. Insomma la distinzione mi sembra superabile, quasi superata. Io in ogni caso sono a cento chilometri da Milano, e una volta ho visto un film americano dove si facevano cento chilometri di metropolitana per andare a lavorare a New York e viceversa. “Allora sono milanese anch’io” ho pensato.
Una cosa curiosa venuta fuori organizzando Ring è proprio la scelta di Alessandria. In questa città c’era già una lunga tradizione di critica, dato che da 23 anni si tiene il Premio Ferrero. L’idea era quella di costruire qualcosa attorno a questo premio, in modo da far venire un pubblico più vasto. In fondo la critica italiana è sparsa nella provincia del nostro Paese. Ad esempio le sedi di molte riviste non sono in grandi città: Cineforum si fa a Bergamo, Filmcritica a Vicenza, e molte piccole riviste sono sparse in tutta Italia.

Cosa ne pensa invece di quello che ha detto Alessandro Baricco, che è stato abbastanza duro nei confronti della critica cinematografica italiana?

Lui è un sostenitore di una critica trasparente, in cui il critico è un reporter anonimo, un po’ il contrario di quello che avviene oggi.Sono d’accordo con quasi tutto quello che ha detto Baricco, salvo una cosa. Concordo che il critico debba andare in cerca di una visione, andare a trovare quei film che davvero provano a creare una visione delle cose, che ricreano il mondo con il cinema. Concordo che il critico debba essere un reporter dal fronte, che vede i film e li descrive. Comincio a non essere più d’accordo sulle ultime cose che ha detto. Ad esempio sul fatto di togliere la firma al critico. In fondo i reporter di guerra firmano i loro pezzi, e così anche il critico che torna dal fronte ha la responsabilità di quello che scrive, e la firma ne è testimonianza. Inoltre ho dei dubbi sul fatto che il critico debba essere solo un reporter. Deve infatti tener conto di altre cose. Che c’è una storia del cinema, e quindi il film deve essere visto in base a quelli che lo hanno preceduto. E che a volte il critico si trova di fronte a un film che fa nascere una sorta di insorgenza, uno spunto, una novità rispetto al modo normale di intendere il cinema e bisogna riportarlo e commentarlo.

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