Passione non precaria
Precari d’Italia, fate attenzione: questa pellicola, in verità deliziosa, potrebbe farvi male. La storia, probabilmente lo sapete, è quella (ispirata a fatti realmente accaduti) di una nave “pirata” popolata da dj che, nell’anno di grazia 1966, diffonde dalle acque del Mare del Nord al largo dell’Inghilterra il verbo del rock, rapendo il cuore di una generazione di ascoltatori e attirandosi l’odio di un perfido ministro conservatore deciso a chiudere le trasmissioni nel nome della moralità e del buongusto (e qui siete tutti autorizzati a tirare uno sputo degno del miglior Sid Vicious). Capite bene cosa questo comporti a livello filmico: una carrellata di personaggi uno più divertente dell’altro, gag a raffica, un’ambientazione intrigante e una colonna sonora da urlo. Tutti elementi cuciti con perizia e intelligenza da Richard Curtis, qui in veste sia di regista che di sceneggiatore. D’altra parte, quando hai a disposizione la musica di una stagione memorabile come quella della metà degli anni Sessanta e una schiera di fuoriclasse come Kenneth Branagh, Rhys Ifans, Philip Seymour Hoffman, Emma Thompson e Nick Frost (già sodale di Simon Pegg), tutti ben disposti e chiaramente divertiti all’idea di lavorare coralmente come caratteristi, il gioco si fa decisamente più semplice. Risultato centrato, quindi. E con stile.
Il punto però è un altro, e si ricollega all’avvertimento che vi ho lanciato in apertura di articolo (che, tra l’altro, è un subdolo mezzuccio per tenere viva fino a qui la vostra attenzione). Vi dicevo che questo film potrebbe ritorcersi contro di voi. Questo perché, al di là della divertente ragnatela di sottotrame che lo compongono, che va dal “romanzo di formazione” del giovane Carl alla sfida all’ultimo disco tra il Conte e Gavin Cavner fino all’assurdo matrimonio di “Simple” Simon e alla battaglia politica del ministro Dormandy, il nocciolo del film è un altro. E qui si soffre. Già, perché il cuore della pellicola, in fondo, altro non è che il lavoro inteso nella sua forma più alta, quella in cui rappresenta anche una passione. Quello che va in scena, se ci riflettete, è una versione volutamente estremizzata (ai limiti dell’utopico) dell’ambiente lavorativo ideale: positivo, stimolante, formato da persone competenti e affiatate messe in grado di dare il meglio da un capo che è conscio del loro valore. In poche parole, quello che l’italiano medio under 40 (che poi è la persona che qui da noi andrà a vedere il film), tra impennate del tasso di disoccupazione e leggi che premiano il modello del lavoratore “usa e getta” si è ormai abituato a considerare una chimera, un lusso per pochi. State dunque attenti, ve lo ripeto: al riaccendersi delle luci, dopo un paio d’ore di emozioni e risate, potrebbe fare capolino una buona dose di malinconia.
A cura di Marco Valsecchi
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