A dispetto degli artigli, il ghiottone non graffia
Nel corso degli anni, ho elaborato una mia personalissima teoria circa il metro di giudizio con cui la critica nostrana e internazionale valuta i film di supereroi. L’ho chiamata la “Teoria del punto e mezzo” e il suo assunto fondamentale poggia appunto sul fatto che se il protagonista del film è un uomo in calzamaglia dotato di superpoteri, tendenzialmente, la valutazione del prodotto sui giornali specialistici cresce, appunto, di uno virgola cinque decimi. Quindi il primo film sui Fantastici Quattro, pur essendo palesemente una ipervaccata, alla fine può portare a casa un cinque, mentre lo Spider Man di Raimi, che a conti fatti è un discreto film e nulla più, può essere salutato come un grande film superomistico e prendersi voti superiori al sette nelle recensioni. Nulla da ridire a riguardo, basta parlar chiaro. E infatti vi ho infilato tutta questa premessa per dire che se siete fan del genere, a questo Wolverine firmato Gavin Hood potreste quantomeno concedere il beneficio del dubbio e una valutazione che rasenta la sufficienza. Se invece amate il buon cinema, preparatevi a una visione mediocre nel senso peggiore del termine.
Partiamo dalla sceneggiatura, che in quanto scribacchino è mediamente il primo aspetto di un film che tendo a considerare. Ecco, in questo caso ci troviamo di fronte a buchi, ingenuità e incongruenze veramente impossibili da giustificare, anche applicando la più rigorosa sospensione dell’incredulità. Non sto a entrare troppo nel merito, anche per evitarvi spoilerate, ma il fatto che il cattivo elabori piani della durata di un lustro sottovalutando soluzioni che potrebbero risolvergli la vita in due giorni è abbastanza incomprensibile (ah, già: c’erano due ore di film da riempire). Passando sul piano della regia, mi limiterei a dire che Hood gestisce bene le uniche due cose che gli era richiesto di gestire: degli eccellenti effetti speciali (onore al merito) e uno stuolo di personaggi rispetto ai quali le aspettative dei fan non potevano essere tradite. Posto che l’annunciata e poi non realizzata presenza di Bestia mi ha mandato, per l’appunto, in bestia (e scusate il calembour), il resto del roster marvelliano regge molto bene. A partire dal reginetto della festa, interpretato da un bravo Hugh Jackman che per l’occasione si è anche impegnato nel ruolo del produttore.
Una scelta a mio parere non casuale: visto che il film sarebbe stato incentrato sul suo personaggio, immagino che il saggio Hugh abbia voluto avere più controllo possibile della situazione. In primo luogo sbarazzandosi del regista Brett Ratner, che aveva già ampiamente mandato in vacca il terzo X-Men, e poi mettendo una polizza sulla propria figaggine, ribadita praticamente a ogni inquadratura. Sempre a proposito di personaggi carismatici, non delude Gambit, atteso al varco da ormai troppo tempo e finalmente trasposto filmicamente con un certo stile. Buono anche lo stuolo dei comprimari, con Dominic Monhagan a far buon viso a cattivo gioco (con tutti i superpoteri che c’erano a lui tocca accendere lampadine col pensiero), Will i Am nella parte del nero che muore ma non subito e Sott Adkins a interpretare un Deadpool discutibile ma non disprezzabile. A restare nel cuore, comunque, è soprattutto Liev Schreiber, nei panni dell’artigliato fratel Victor: il suo ghigno animalesco è quanto di meglio il film riesca a offrirci. E se per voi è poco, non dite che non vi avevo avvertiti.
A cura di Marco Valsecchi
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