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Sbarre di solitudine

Sbarre di solitudine

Questo è un film che si gioca tutto sull’identità di una donna che, in un momento preciso della sua vita, entra ed esce da due differenti condizioni esistenziali: la prigione e la libertà. L’abilità di Philippe Claudel, qui alla sua prima regia – molto “scritta” e “dettata” – scandisce le tappe di allontanamento e avvicinamento da una condizione all’altra. Juliette, quindi, si presenta come una pedina in movimento, alla ricerca del senso perduto. Ma fin qui tutto sembra semplice, lineare. Eppure ti amerò sempre, che in originale s’intitola Il y a longtemps que je t’aime (ti amo da molto tempo), titolo che spinge più verso il passato e i ricordi, non è un film monotono. Anzi. Claudel vuole tinteggiare con colori spenti, atmosfere grigie, situazioni di reale imbarazzo e disagio la rinascita di una donna che conserva un passato tormentato, segreti pesanti, ansie irreparabili. È proprio in questo continuo rivolgersi agli equilibri tra passato e presente che il film di Claudel cerca di risistemare i pezzi di una vita destinata a invecchiare in mezzo ai rifiuti della nostalgia e dei rimorsi.

Juliette riflette, anche grazie all’espressività corporea di Kristin Scott Thomas, imperturbabile ma sensibile, dal sorriso dolce e con lo sguardo amaro, la condizione della donna in cerca di riscatto nonostante senta di non meritarselo. Juliette è il senso di colpa che dopo la prima uscita di prigione, prova a cercare una nuova via d’uscita, più vera, più sentita, più corporale. Il dentro e il fuori diventano, quindi, i due luoghi dell’anima indagati da Claudel che fa di tutto per migliorare la condizione esistenziale della sua protagonista in cerca d’amore. Juliette è accolta e si sente accolta dalla sorella, ma in più circostanze dovrà fare i conti con i pregiudizi delle persone che le gravitano intorno, con certi sospetti, fraintendimenti, dispetti.

Questo è un film che prova a entrare in contatto con ciò che separa la donna dalla sua verità, che s’insinua tra le distanze comunicative, affettive, fisiche delle persone. È un film che prova a stabilire con coraggio un nesso tra il peccato e il riscatto e che, nonostante una certa secchezza narrativa, realizza con coerenza l’umanità e l’inumanità dei personaggi. Un film, infine, che rappresenta le diverse forme di libertà a cui una donna, ma forse più in generale, ogni essere umano, può tendere. Il titolo italiano, in questo senso, può risultare, a parte il rischio di una certa furberia retorica, un reale invito a guardare oltre, a spingersi oltre. Ecco perché in questo film Juliette va oltre le barriere, le sbarre, le gabbie. E per questo Juliette può essere considerata un’invisibile, un fantasma.

Curiosità
Philippe Claudel (nato a Dombasle-sur-Meurthe il 2 febbraio 1962) ha dichiarato: «Le immagini mi hanno sempre intrigato, sia che nascano da parole, fotogrammi o quadri (in un certo periodo della mia vita ho dipinto molto…). Amo approfondire la nostra visione del mondo attraverso le immagini, vi gettano nuova luce, la mettono in discussione con la loro presenza e la obbligano a riflettere su se stessa. Inoltre sono sempre stato un patito di film». Il film ha ottenuto due nomination ai Golden Globe 2008: Miglior attrice in un film drammatico e Miglior film straniero.

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