hideout

cultura dell'immagine e della parola

Il (sor)riso amaro della commedia all’italiana – Intervista a Monicelli

Miccichè l’ha definita “autore suo malgrado” e lei stesso ha parlato di sé come artista del cinematografo…
Mario Monicelli
Lo dico perché “artigiano” è una definizione molto nobile. Gli artigiani sono quelli che hanno fatto la civiltà artistica rinascimentale: Donatello, Piero della Francesca, e così via. L’artigiano è una persona che non crede di essere l’artista supremo che deve essere incoronato, non pensa di dover dire delle cose straordinarie: è qualcuno che ama il suo lavoro, che lo fa con pazienza, con amore e spesso con ottimi risultati che rimangono nella storia. Nulla di più. Ma siccome nel mondo dello spettacolo e dell’immagine oggi non ci sono più artigiani ma solo grandi artisti, grandi registi, grandi operatori, grandi attori… io cerco di sottrarmi a questa cialtronata che ha investito il mondo del cinema e di farmi da parte.

Eppure sembra non riuscirci perché continua a ricevere grandi riconoscimenti…

Non credo. Io non ho avuti moltissimi riconoscimenti, per fortuna. Il fatto stesso che lei mi faccia un’intervista è già un riconoscimento. Sono conosciuto, i miei film circolano, ogni tanto sono chiamato in qualche città… mi fanno conoscere il mondo e persone nuove da cui c’è sempre da imparare.

Il ribaltamento e la commistione dei generi di cui si è tanto parlato a proposito de “I soliti ignoti” e della commedia all’italiana riguarda anche gli aspetti tecnici? La fotografia contrastata di Gianni Di Vinanzo rimanda allo stile noir o al realismo poetico ed è molto diversa da quella del neorealismo. E’ voluto o accidentale?

Era una cosa che avevamo calcolato. La commedia all’italiana ride dei drammi e ne fa una farsa. Il taglio fotografico quindi deve seguire questo fondo, questo aspetto drammatico che rende unico questo genere. Gli stranieri si stupiscono che riusciamo a ridere del dramma, d’altra parte è una tradizione che ci viene da lontanissimo e ci viene naturale farlo.

Pensando al grande successo che “I soliti ignoti” hanno avuto negli States, mi chiedevo qual’era l’ingradiente che rende così inossidabile ed esportabile questo film tutto italiano.

Non solo il mio film, tutta la commedia all’italiana, capace di fare dell’umorismo su temi drammatici, tragici.

Quindi questo riso amaro è l’elemento universale…

Sì, perché infatti ridono. Non solo in Italia, ridono i francesi, gli americani e i cinesi. Questi ultimi amano molto la commedia all’italiana, la doppiano anche. Dovreste sentire Totò parlare in cinese! Universale perché i sentimenti sono sempre quelli, non cambiano mai: né con i secoli né con i paesi.

Che legame esisteva fra lei e gli altri protagonisti di questo genere? Risi, Germi, Comencini, Lattuada… C’era una consapevolezza di essere parte di una corrente oppure è stato qualcosa di spontaneo?

Assolutamente spontaneo, le posso citare una cosa che purtroppo mi riguarda. Il primo film che ho girato come regista è stato negli anni subito dopo la guerra, in un’Italia che usciva distrutta dalla guerra e da una dittatura stupida e criminale. Si chiamava “Totò cerca casa”. In quel momento la casa era un tema molto serio, come può immaginarsi, c’era tutt’altro da ridere. Questo film, però, pur essendo abbastanza brutto, era divertentissimo ed ebbe un grande successo. Non avevamo studiato a lungo e non sapevamo nemmeno se fosse questa la strada giusta. Un altro film del genere era “Come persi la guerra” di Borghesio, una farsa su un tema spinoso e dolente ma che fece divertire molto. Fece arrabbiare perfino il governo e Andreotti che disse: “I panni sporchi si lavano in casa, non si può mandare all’estero un film così denigratorio per l’Italia, per quello che era.” Quando decisi di fare “La grande guerra” e seppero che lo giravo io, la scrivevano Age & Scarpelli e la interpretavano Gassman e Sordi, ci fu una rivolta della stampa italiana. Dicevano che volevamo mettere in ridicolo la nostra grande epopea e i 600.000 morti. Invece ebbe un successo clamoroso e fu infranto questo tabù stupido di una vittoria falsa e dei milioni di soldati mandati a morire senza cibo, attrezzature e armamenti.

Quanto ha contato per voi la qualità della squadra?

Molto, però soprattutto nell’immediato dopoguerra. Non solo per noi che facevamo la commedia, per tutto il cinema italiano: Visconti, Fellini, De Sanctis, De Sica… si è sempre lavorato in gruppo, in particolare nella fase della stesura del soggetto e della sceneggiatura. Eravamo tutti insieme, tutti amici. Nel settore del cinema italiano eravamo una quarantina di persone, fra sceneggiatori, registi e qualche attore. Ci frequentavamo molto, si andava insieme a mangiare, si partiva per il week-end insieme per divertirsi, passeggiare, discutere. Non avevamo gelosie, non avevamo competizione. La nostra generazione ha vissuto in maniera bella, amichevole e proficua. Ci scambiavamo le idee, i soggetti, qualche volta le battute ma sempre senza invidie.

Forse è proprio questo che manca oggi…

Questo è vero. Io spero che rinasca questo nostro spirito, che trovo indispensabile per fare dei prodotti vivi che rappresentino bene la realtà.

Cosa ne pensa della nuova stagione della commedia italiana?

Penso che ci sia una buona ripresa. I giovani autori di oggi hanno ritrovato questa maniera di lavorare insieme, senza pretendere di fare tutto da soli, come è stato per le due generazioni precedenti: scrivevano il soggetto, lo dirigevano e qualche volta facevano anche gli attori. Adesso mi pare che questi giovani si occupino della loro generazione, della realtà che li circonda, delle problematiche della loro età, le loro illusioni, delusioni. Non come i precedenti che facevano delle imitazioni di Antonioni, Fellini o Visconti. Questi non fanno imitazioni, fanno i loro film e questo attira il pubblico italiano, che si vede finalmente rappresentato autenticamente. Ho molta fiducia in questa nuova generazione.

Fra l’altro Virzì la cita come maestro…

Io non sono maestro di nessuno e nessuno è allievo di nessuno. Ognuno si fa da sé.

Riguardo “Amici miei” ci piacerebbe sapere perché Germi scelse proprio lei e in che fase subentrò?

Perché eravamo molto amici. Ci siamo conosciuti alla fine degli anni quaranta, ho fatto il suo assistente per “Il testimone”, suo primo film. In seguito ci siamo frequentati molto e siamo diventati amici. Germi era un personaggio abbastanza difficile da trattare, aveva un carattere scorbutico, chiuso, ma noi riuscivamo a stare molto insieme: parlavamo, litigavamo. C’era stima fra noi. E quindi quando lui non ha potuto girare “Amici miei” perché era malato, aveva una cirrosi tremenda, ha pensato a me. Anche perché è una vicenda con personaggi toscani, gli sceneggiatori erano toscani e li conoscevo perché ci avevo già lavorato. Era un contesto in cui ero a mio agio, perché io stesso ero toscano e conoscevo queste storie che si raccontano a Firenze. Germi voleva ambientarlo a Bologna e quando mi ha chiamato per coinvolgermi gli ho proposto di spostarlo in toscana, visto che era nato lì. Lui è stato d’accordo e così abbiamo fatto.

Il suo rapporto con la censura? “Totò e Carolina” è stato particolarmente vessato…

Non solo “Totò e Carolina”, anche per “Guardia e ladri” ho dovuto fare dei tagli, cambiare delle battute, e così per molti altri. Per fortuna tutto il cinema italiano era contro la censura e quindi ci aiutavamo l’un l’altro, facendo marce, così odiate da questo governo. Andavamo sotto il ministero per protestare e si faceva battaglia contro la commissione. A furia di lottare questa istituzione è stata smantellata e adesso praticamente non esiste più. La vera censura dovrebbe essere fatta contro l’esaltazione della guerra e del sesso. I giovani guardano e imparano ad uccidere come se niente fosse, vivono il sesso in modo troppo smaliziato. La televisione ci insegna cose che quando ero ragazzo non si vedevano e non si volevano nemmeno vedere.

La sua carriera si è spesso incrociata con altre grandi figure del nostro cinema. In particolare, ricorda un aneddoto riguardo Sordi e la vostra collaborazione?

(Ride) Vede l’aneddoto che posso raccontarle è che ogni volta che faccio un’intervista tutti mi chiedono un aneddoto. Io non sono un raccoglitore di aneddoti. Mi sono capitate migliaia di cose nella mia carriera, ma non mi ricordo niente e non so nemmeno raccontarle. Mi spiace, non saprei cosa dirle. Dovrei trovare qualcuno che li scriva al posto mio.

Prossimi progetti?
[img4]
Ne ho uno, speriamo che prenda il via perché è rimasto in sospeso a lungo. E’ un film che si intitola “L’omo nero” per un gioco di carte che facevamo da bambini… credo che ora sia scomparso. Si scartavano le coppie e alla fine rimaneva una carta spaiata, chiamata l’omo nero, e chi l’aveva si faceva una penitenza.

Un’ultima domanda prima di salutarci. Cosa ha colpito recentemente il Monicelli spettatore?

Negli ultimi anni, fra i film italiani, mi ha colpito “Un uomo in più” di Sorrentino. Poi ci sono altri autori ad esempio Marra, Crialese, Ozpetek, Muccino, Soldini. Infascelli, Piccioni, Giordana. Il cinema per prima cosa è un’industria e poi è un’arte per modo di dire. Se i film hanno il consenso di pubblico e si può rischiare economicamente perché questo prodotto produca un guadagno, allora si fanno, altrimenti no. Adesso ci sono film che attirano quel pubblico che per vent’anni non era più andato al cinema, quindi l’industria sta riprendendo un po’ fiato e se questa si riprende anche il cinema di qualità avrà nuova vita.

Altri links correlati:
intervista a Carlo Lizzani
intervista a Tiberio Murgia
progetto Fox e Cristaldi per il restauro dell’archivio e creazione dvd

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»