Le fauci della normalità
Oltre il velo
Il primo pensiero va, inevitabilmente, alla geniale trasmissione radiofonica “La guerra dei mondi ideata dall’altrettanto geniale Orson Welles che, da straordinario illusionista, confezionò uno spaventoso scherzo in grado di mettere in scacco la popolazione degli Stati Uniti: del resto, nella storia, passata e presente, della settima arte, la minaccia proveniente da altri mondi è sempre stata segno di tensioni politiche, razziali, belliche estremamente reali.
Si pensi a Ultimatum alla terra (The day the Earth stood still, Robert Wise, Usa, 1951), ai due La cosa (The thing, John Carpenter, Usa, 1982 e The thing from another world, Christian Nyby e Howard Hawks, Usa, 1951), per giungere ai più recenti La guerra dei mondi (War of the worlds, Steven Spielberg, Usa, 2005) e Cloverfield (Cloverfield, Matt Reeves, Usa, 2008): riusciti o no, meri film di genere o pellicole di respiro universale, tutti i prodotti classificati o classificabili come catastrofici celano critiche e natura ben identificabili nel reale.
Frank Darabont, per nulla nuovo all’abilità di scrittore di Stephen King, costruisce proprio sulla realtà il vero orrore di questa sua nuova, inquietante opera: oltre il velo della pesante nebbia che avvolge i protagonisti e porta nel nostro mondo mostri terrificanti e assetati di sangue, infatti, è lo specchio dell’essere umano a mostrare la vera inquietudine.
Nonostante suspence, sangue, ritmo e combattimenti, l’impressione è che a rendere l’atmosfera davvero soffocante e senza via di fuga siano proprio i rifugiati del supermercato, pronti a scontrarsi, uccidersi, sacrificarsi, mossi dal mero senso di sopravvivenza.
Come la succitata guerra dei mondi suggerisce, la forza dell’Uomo potrebbe risiedere proprio in questo: eppure, chiusi fra quegli scaffali sotto la costante minaccia di belve feroci e orripilanti, la tensione che, come nebbia, si sparge in sala, spinge al superamento del velo: non è possibile restare un secondo di più accanto a quel mostro così ben celato dalla maschera della normalità, più efficace di qualsiasi coltre fumosa.
Two sides of the coins
Buon sottotesto, ritmo incalzante, immaginario ed effetti giustamente inquietanti: cosa manca, dunque, a questo The mist per arrivare a essere considerato a tutti gli effetti un film pienamente riuscito?
Per prima cosa la scomoda presenza di King, che, pur se non autore della sceneggiatura, rischia di essere l’unico responsabile dei due veri colpi di genio della storia; uno stile non sempre pulito, ma piuttosto un ibrido che pare non trovare la sua identità, a metà ancora fra La guerra dei mondi e Cloverfield ; per chiudere, un cast non sempre all’altezza di una produzione da blockbuster.
Darabont, molto abile nel mantenere il tono sottilmente ironico della pellicola e a sostenere i momenti meno brillanti dello svolgimento, pare di contro mancare del carisma del direttore d’orchestra che, nonostante abbia tra le mani la materia mai facile di un film di genere, dovrebbe riuscire a trasformare il particolare in universale e rendere un’opera solo per appassionati un caso capace di attrarre anche gli scettici.
Curiosità
All’interno dello studio di David campeggia il poster dell’indimenticabile La cosa (The thing, J. Carpenter, Usa, 1982), che come The Fog (The Fog, J. Carpenter, Usa, 1980, recentemente rifatto da Rupert Wainwright ), rappresenta una delle influenze maggiori confluite nel film. Nel corso di una delle scene fisicamente più d’impatto, uno dei personaggi prende fuoco cadendo su un espositore del centro commerciale che porta esclusivamente libri di Stephen King.
A cura di Gianmarco Zanrè
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