Voi siete dalla loro parte?
Michael Haneke rifà se stesso dodici anni dopo l’insuccesso commerciale (statunitense) del primo Funny Games, ricalcando con precisione le atmosfere e le intenzioni di quella magnifica, destabilizzante prima volta. Una famiglia borghese, la casa sul lago, i vicini, le partite a golf, la barca a vela e poi loro due, due sconosciuti, Peter e Paul, bianchi e lividi, apostoli della morte che invadono la soglia di casa, i confini della famiglia, con l’efferato gusto dell’orrore.
Funny Games ‘08 è lo specchio della versione europea del 1997. Un remake americanizzato fortemente voluto dai produttori che inizialmente avevano contattato Haneke per sapere quale regista avrebbe potuto girare una nuova versione di Funny Games. Il regista austriaco non ci ha pensato troppo e si è autocandidato regista di se stesso ponendo come unica condizione la presenza di Naomi Watts nel ruolo che fu di Susanne Lothar. Poi il resto del cast ha impreziosito un film già prezioso e necessario per chi ama il cinema, il gusto della visione, l’intelligenza dello spettacolo. Da Tim Roth a Michael Pitt fino al giovane Brady Corbet, gli attori di Funny Games ’08 amplificano il senso dell’assurdo, il desiderio di scoprire, di guardare, di entrare a stretto contatto con la violenza, con la necessità di fornire agli occhi le informazioni necessarie per capire cosa realmente stia accadendo dentro quella casa. L’esigenza, cioè, di essere spettatori vivi.
Haneke ridefinisce così la violenza dello spazio intimo o, forse, la perdita dell’intimità. Lo fa sfruttando i codici cinematografici dell’horror, del thriller e del farsesco, senza mai tradire la tensione, senza mai abbassare il ritmo. Eppure le inquadrature sono infinite, i movimenti di macchina lenti, le torture e le uccisioni fuori campo, il finale atteso ma scontato. La grandezza di questo film è tutta racchiusa nelle contraddizioni che, di fatto, costituiscono il nucleo centrale dell’intera vicenda. Non serve spiegare i motivi della violenza, non serve teorizzare una possibile chiave di lettura su ciò che ha spinto Paul e Peter ad essere fatti così. Haneke non spiega, mette tutto in gioco. Sono le immagini a comunicare, a relazionarsi con lo spettatore. Sono le immagini ad infastidire, inseguire e spingere lo spettatore. Che, volgarmente, forse aspetta un gesto che spezza la tensione, come un proiettile dentro un torace o una lama dentro una gamba e invece niente.
Haneke insegue la correttezza dello sguardo. Haneke vuole l’etica dello sguardo. Si diverte perché veste i panni del burattinaio. Dirige, comanda, detta le regole. Proprio come i suoi due angeli della morte. Parla con il pubblico, conduce, offre ricchi premi e cambia addirittura canale quando gli fa comodo.
Non poteva essere altrimenti. Non potevano farlo altri.
A cura di Matteo Mazza
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