Strumento di orgoglio nazionale, anche al cinema
“In Carnera, come negli altri miei film, ripropongo un tema che ritengo fondamentale, ovvero l’assoluta necessità di riscoprire la nostra identità e i nostri valori. Soprattutto in questo momento in cui l’Europa ha smarrito la propria identità e ha abdicato ai propri valori cristiani, fondanti di questa civiltà”. Martinelli ci riprova, e questa volta lo fa narrando la storia di un uomo, con l’ambizione di narrare attraverso la vicenda del singolo un pezzo di storia italiana. L’uomo in questione non è uno qualunque, per ragioni storiche, sportive e fisiche: è Primo Carnera, campione del mondo di pugilato nell’Italia fascista degli anni Trenta. Primo Carnera “la montagna che cammina”, come fu soprannominato, non approda sul grande schermo per la prima volta: la parabola di vita di questo gigante speciale (centoventi chili) che il cinema usò anche in vesti di attore, ha ispirato The Harder They Fall (1956), noto in Italia come Il colosso d’argilla diretto da Mark Robson e anche ricordato per essere l’ultima interpretazione cinematografica di Humphrey Bogart.
Nato in un paese in cui la statura media era di 1.63, Carnera (8 chili già alla nascita) cresce fino a raggiungere i due metri e cinque, soffrendo la fame e la solitudine che prova chi è evidentemente diverso dagli altri. Finisce in un circo, viene notato da un ex campione dei pesi massimi, diventa professionista e attraversa l’oceano per andare a conquistarsi il titolo mondiale contro Jack Sharkey, nell’arena del Madison Square Garden. E’ il 1933 e il regime fascista intuisce le potenzialità del mito: era un italiano, povero e di umili origini, e aveva conquistato l’american dream. Praticamente un balsamo sull’orgoglio di una nazione arrogante e superomistica, di cui lo spettatore intuisce l’esistenza senza poterne approfondire i risvolti d’inquietudine, forse perché al regista stesso questi sfuggono. Poco capace di sfuggire al tranello della retorica, Martinelli confeziona un film in linea, negli intenti, con Il mercante di pietre, ma che somiglia, paradossalmente, a un kolossal americano. Evita infatti sofisticatezze autorali per servire al pubblico un prodotto che s’inserisce perfettamente in quel filone di cinebiografie sportive che portano il marchio del desiderio di rivalsa. Il ritmo è comunque buono – sostenuto dal protagonista Andrea Iaia (alto due metri come il boxeur friulano) e dai bravi comprimari Burt Young e Murray Abraham, e non sfigurano le scene di folla, che rendono l’idea del posto che occupava questo eroe sportivo nell’immaginario collettivo degli italiani dell’epoca, compresi quelli emigrati in America.
Restano più che altro, in un film che vorrebbe – senza riuscirci – tracciare un profilo malinconico dell’Italia fascista, e nonostante gli intermezzi scontati e zuccherosi della storia familiare, i pugni poderosi di un uomo che da freak riuscì a diventare mito e che per tutta la vita, nonostante l’happy end, si sentì inesorabilmente solo. Ma questa è un’altra storia, un altro film.
Curiosità
La pellicola ha mantenuto il titolo in inglese, lingua in cui è girato, per facilitarne la vendita all’estero.
A cura di Antiniska Pozzi
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