Questo non è un film
Entrate in sala ma sullo schermo non c’è finzione. Gomorra è tutto, tranne che un film.
Il buio si crea e il proiettore parla. La musica composta da Robert Del Naja e Neil Davidge dei Massive Attack è così maledettamente indovinata e ci introduce all’ineluttabile cupezza del racconto con il susseguire teso e ascendente di battiti incessanti. Come quando si sa di essere pronti a morire e il cuore impazzisce come un motore disumano. Non era facile. No, non era così scontato portare sul grande schermo quel mosaico così perfettamente composto da Saviano sulla carta scritta. Eppure Matteo Garrone, classe 1968, ci regala una rappresentazione potente senza sbavature né inutili virtuosismi di alcun genere. Capisce che ciò che gli passa davanti all’obiettivo non ha bisogno di essere evidenziato e allora si lascia guidare da quel battito, che ricordavo prima, dall’inevitabilità del reale che lo/ci trascina dentro la scena.
Se le sue pellicole precedenti L’imbalsamatore (2002) e Primo amore (2004) erano delle poesie dark sull’ambiguità di certa “piccola” umanità, in Gomorra il regista non tradisce sé stesso, ma si supera. La lirica a tinte fosche si adatta con eguale eleganza a una visione ibrida in cui la forza della messa in scena inevitabilmente costruita è costantemente tenuta a bada dalla necessità impellente di lasciar respirare la realtà.
E Napoli, non più città del sole, ma inferno contemporaneo, città di scavi, non più archeologici, ma di fosse comuni umane e rifiuti tossici, diventa l’epicentro di una crudeltà perfetta, nella quale la banalità del male si consuma attraverso la terribile matematica dell’interesse che offusca la ragione, dell’odio per il vicino che diventa ispirazione per accrescere la propria potenza.
«Sparo, uccido, dunque esisto» ricorda lo stesso Roberto Saviano.
La forza di quest’opera, ribadisco, è tutta nello sguardo perentorio del regista romano. Avere di fronte un regime del male così smisurato e non perdersi nell’osservarlo acutamente è mestiere di pochi grandi artisti. Garrone sembra quasi resuscitare la struggente e raggelante registrazione neorealistica di Rossellini in Paisà (1944) per unirla al piglio acido e pungente di Francesco Rosi ne Le mani sulla città (1964), non dimenticando la lezione d’asprezza visiva di due ottimi e fin troppo sottovalutati autori partenopei quali Francesco Patierno e Antonio Capuano.
Una miscela che, in definitiva, lancia meritatamente quest’opera sulla ribalta internazionale (il film è in concorso al Festival di Cannes 2008), con la speranza finalmente che si possa dimostrare quanto il nostro cinema, così nostalgico di sguardi penetranti e indagatori, riesca ancora a produrre opere di grande coscienza sociale e contemporaneamente di assoluta qualità visiva e narrativa.
Come si guarda la morte?
L’orrore non cerca l’aderenza. C’è uno spazio che non si può riempire, se si vuol capire. Urge la necessità di una distanza perché l’affresco acquisisca, nella sua totalità, un senso. In questo film dove non manca niente, dai colori (si passa dal violaceo della sala per le lampade al nero cupo delle grotte dei clan) alle musiche (dalle melodie partenopee al pop nazionale), dalle figure viventi (uomini, bambini, donne, anziani e persino animali) a quelle inanimate e invisibili (l’immondizia ma anche i nemici di Ciro e Marco), una cosa prevale su tutte: lo sguardo lontano / dall’alto.
Due esempi. Una piscina felice dove tanti bambini saltellano e giocano. Il quadro armonioso e tenero di un’infanzia normale. Eppure lo sguardo si allontana con uno stacco di montaggio e vediamo che quella piscina è rinchiusa nella gabbia del quartiere di case popolari di Scampia. La distanza aumenta, così come la nostra consapevolezza dell’orrore. E ancora, Don Ciro, il “sottomarino”, è scampato a un attentato e prova, evidentemente scioccato, a scappare dalla trappola. La telecamera lo assiste per poi osservarlo dall’alto, come il destino che sembra ineluttabilmente attenderlo al varco. La macchina lo segue e noi comprendiamo che l’uomo deve in realtà passeggiare su un campo di cadaveri, se vuole riuscire a trovare la via di fuga.
Anche qui è aumentata la distanza. Parallelamente all’orrore.
Come si guarda, allora, la morte? Ingenuamente si potrebbe inseguirla, accostarci a essa per avvicinarsi alla sua meccanica. Inquadrarla costantemente per seguirne la scia e sconfiggerla. Ma un’altra grande lezione di quest’opera è che la morte non cerca uno stretto scrutare. Che la morte ci frega, più noi cerchiamo di guardarla da vicino.
Sebbene il suo grande mistero resti per noi irrisolvibile, la morte in Gomorra è un quadro che esige l’autenticità del distacco. Un paesaggio lugubre che si può afferrare quanto meno si può stringere.
A cura di Giuseppe Carrieri
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