Tra marketing e visioni
The Blair Witch Godzilla di Carlo Prevosti ********
Il film inizia diretto, senza alcun titolo di testa. Barre di colore, fischio a mille hz e un secco cartello in cui si dichiara che il video che segue è proprietà degli Stati Uniti d’America ed è stato acquisito come prova nel luogo una volta noto come Central Park. Comincia quindi una lunga ripresa, eseguita con una videocamera amatoriale, delle ultime ore di New York, di quella Lower Manhattan che era già stata duramente colpita al suo cuore economico, le Twin Towers, e che faticosamente si era rimessa in piedi, a testa alta. Questa volta però i terroristi non hanno alcun ruolo nella distruzione della Grande Mela: il responsabile è un enorme essere dall’aspetto mostruoso di cui nulla si conosce al di fuori della furia distruttiva. Sarebbe molto semplice liquidare Cloverfield come una boiata, girata come un Super8, accusandolo di non dare poi spiegazione alcuna sulla genesi del mostro, e nemmeno della sua fine. Basterebbe ancorarsi a un’idea di cinema fossilizzata sugli schemi classici, sull’idea tradizionale che si insegna a proposito del montaggio e di tutte le convenzioni che il linguaggio cinematografico porta nella sua ontologia. Si tratterebbe di un errore, un ulteriore passo sul viale del tramonto seguendo la via tracciata da chi sostenne che con l’avvento del sonoro il cinema fosse morto.
Bisogna pur ammettere che non ci troviamo di fronte a una rivoluzione copernicana dell’universo cinematografico, e neppure a un film che lascerà il segno nella storia del Cinema per il suo contributo tecnico o narrativo. Cloverfield è un monster-movie di serie B nato dall’inventiva di J.J. Abrams che, stupefatto dalla visione del film coreano The Host (Gwoemul, Joon-ho Bong, 2006) ha ideato una declinazione di Godzilla (id., Roland Emmerich, 1998) in chiave The Blair Witch Project (id., Daniel Myrick ed Eduardo Sánchez, 1998), di cui ha ricalcato sia la scarna forma cinematografica che la folle e massiccia campagna di marketing virale che ha scatenato in rete una mania di proporzioni inedite. Abrams ha certamente capito che il cinema non inizia più nel momento in cui il buio scende in sala, ma che il cyber-spazio può diventare parte integrante di un’esperienza globale, multimediale e autoespansiva grazie alla forza dirompente di [/talic]blog e user generated content. Cercare di leggere un film come Cloverfield solo per la sua fruizione in sala impedisce così di valutarne il fenomeno nella sua interezza, considerando una parte invece che il tutto e quindi distorcendone l’interpretazione.
Il Mostro è un essere deforme da mettere in esibizione alla fiera delle atrocità. J.J. Abrams ha voluto così presentarlo in una prospettiva mai vista, infondendo al tempo stesso nella pellicola una profusione di effetti speciale di grande impatto perché fortemente realistici, quasi come fossero accaduti realmente. Il segreto di Cloverfield può essere colto dallo spettatore che, come un bambino, accetta l’invito a giocare a qualcosa di analogo al “se fossi”, sospendendo la propria credulità e accettando che quel video possa essere una registrazione di una porzione di un mondo possibile. Solo allora non interessa avere la spiegazione finale che motivi la nascita del mostro o riveli cosa accade a Manhattan nelle ore successive. E dopottutto uscire dal cinema con il mal di stomaco, di tanto in tanto, è anche salutare e divertente.
L’apoteosi dell’immagine/impronta di Francesca Bertazzoni ********
Improbabile e impossibile: la videocamera palmare più resistente del mondo. Sotto fuochi che cadono dal cielo, disastri aerei, bombardamenti totali delle forze armate americane, l’immagine ripresa è l’unica superstite in grado di raccontare. In grado di vedere e far vedere.
L’immagine è quindi imprescindibile e traccia, per i posteri, del mondo contemporaneo; nel suo susseguirsi è rintracciabile la verità.
Generi e modi di rappresentazione entrano in un cono d’ombra: la fantascienza è superata dalla rilevanza delle immagini televisive, immagini “portatili” per eccellenza, usabili e velocemente consumabili, tanto che dopo l’11 settembre hanno contaminato la realtà visiva di cui ogni uomo sulla terra è composto. L’evidenza testimoniale delle riprese video è penetrata nell’immaginazione e nella ricostruzione frantumando i confini: così ora, Cloverfiled mostra scene di “un futuro non troppo lontano” come fossero documenti storici. Reali.
Sebbene la storia sembri già vista, (così dicono, ma solo perché il sentimento di dejà vu e marchiato dalle innumerevoli riprese televisive della guerra, del Word Trade Center, delle rielaborazioni narrative/filmiche di quel settembre 2001, sia prima che accadesse che dopo), il modo di metterla in scena è radicalmente cambiato: la fantascienza diventa un documentario falso. O una vera fiction.
Palesemente montato, narrativo, epico e romantico, con protagonisti favoleggianti: il principe che, con i suoi aiutanti e il magico oggetto, la telecamera, sfida le numerose imprese per risvegliare la sua bella; estremo nel realismo, poiché fissa l’attenzione sull’immagine, forte del suo statuto di realtà.
Si pensava e si pensa tutt’ora che l’immagine cinematografica abbia perso il suo contatto con i corpi concreti e con la capacità di narrare una storia realmente. L’immagine ha perduto il suo potere di seduzione sulle verità del mondo, il suo è ormai solo un ombreggiamento: ingannevole e incredula, l’immagine del cinema mente. Cloverfield esplode contro gli occhi annoiati e assuefatti degli spettatori televisivi, contro la
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