Scusa ma mi appello alla Rezeptionästhetik
L’oggetto artistico e il ricevente: per fortuna, dopo secoli di approccio critico orientato unicamente verso l’opera, nel Novecento sono arrivate le teorie della ricezione, da Jauss ad Iser, a confortarci dicendo che il compito della critica non è quello di spiegare il testo come “oggetto”, ma piuttosto gli effetti che esso provoca nel lettore. Qui si tratta di un film, ma la teoria vale comunque, soprattutto considerando che il film è la diretta emanazione di un testo letterario e, come se non bastasse, del suo autore Federico Moccia, svegliatosi regista un mattino d’estate. Scusa ma ti chiamo amore: partendo quindi dal ricevente, qual è lo spettatore implicito del film? Chi legge i bigliettini dei Baci Perugina come versetti del Vangelo, le abbonate ai romanzi Harmony, le fedelissime di Cioè e Ragazza Moderna, e in generale tutti quelli che credono fermamente che un lucchetto non serva solo a chiudere l’armadietto della palestra. Insomma le fan e i fan di Federico Moccia, quelli che si sono commossi leggendo Tre metri sopra il cielo e hanno assunto questa espressione a titolo dei propri unicissimi amori scrivendolo sui muri e negli sms.
Il ricevente, dicevamo: Moccia lo conosce bene, si direbbe, il suo ricevente, e per la terza volta gli fornisce materia per sognare, fantasticare, innamorarsi dell’amore; poco importa che si tratti di materia sterile e banale, portatrice di un’idea più che stereotipata del sentimento, in un contesto di realtà estremamente settario e deprimente. Come se non bastasse, al terzo film Moccia già si autocita. Da un certo punto di vista è quasi ammirevole il coraggio dell’autore/regista: mandare Alex/Raoul Bova, creative director in carriera, a pescare alle pendici di un faro sperduto in mezzo al mare perché innamorato di una diciassettenne e quindi bisognoso d’interrogarsi sulla vita, è una mossa che richiede fegato. Viene onestamente da chiedersi “Ma ci è o ci fa?”. La seconda. Trattasi non di fegato, ma di furbizia. Dopo il teppistello da salvare, il trentasettenne da riscattare: perché è sull’orlo di una vita piatta e ipocrita, con una quasi moglie che lo tradisce e infinite serate vuote seduti sul divano, circondato da amici a cui tocca la stessa triste sorte. Ma perché? Questo tipo di analisi sembra non importare a Moccia, e del resto ci aveva già pensato Muccino senior ad approfondire, in una situazione vagamente simile: anche lì c’era un trentenne con una quasi moglie, una diciottenne innamorata, amici allo sbando, ovviamente tutto ambientato nella solita Roma bene, esente dal precariato e da fenomenologie sociali di sorta.
Ma qui siamo nella materia dei sogni, ed ecco che l’Amore, nei panni di una diciassettenne gnocca, scende come una Grazia sul protagonista e lo solleva, da tre metri sotto la poltrona qual era, a tre metri sopra il cielo. Il ricevente è pronto per dar via al processo ermeneutico, coadiuvato dalle citazioni che appaiono e scompaiono in sovrimpressione direttamente dalle pagine di un diario d’adolescente, dalla calda voce narrante del solito Luca Ward e da una colonna sonora studiata ad hoc. Questo per quanto riguarda il ricevente: e l’oggetto artistico? Scusate, ma proprio non c’è.
A cura di Antiniska Pozzi
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