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Estremo e selvaggio

Estremo e selvaggio

Setting forth in the Universe” – Moltissime sono le definizioni possibili che si potrebbero attribuire al quarto film da regista di Sean Penn: epico road movie, Roman di formazione degno delle secolari tradizioni letterarie, ritratto di un’America autentica, attraverso gli occhi di un giovane ferito mortalmente dal proprio idealismo. É invece inutile cercare altrove quello che è lampante: Into the Wild racconta di un viaggio estremo, e lo è. Più di alcuni titoli che hanno narrato i percorsi interiori con vocazione spirituale, come ad esempio Un’altra giovinezza (Youth Without Youth, Francis Ford Coppola, 2007), questo film rappresenta la fusione tra due identità, quella del protagonista (realmente esistito) e quella del regista, che ha tratto dal romanzo-reportage Nelle terre estreme di Jon Kracauer (ediz. Corbaccio) la “propria” vera storia del giovane Chris McCandless, compiendo dunque un secondo percorso, autenticamente spirituale, tanto da poter sorprendere anche il cinefilo più navigato.

Sure that I’m leaving, sure that I’m sad” – È bello poter parlare di emozioni e spiritualità senza imbattersi nell’inevitabile stereotipo: sebbene Chris, che nelle vesti di vagabondo diventa Alex Supertramp, incontri durante il tragitto una coppia di hippie con trascorsi di sofferenza, un’acerba cantautrice country dolcissima e innamorata, un anziano veterano che rivede in lui la famiglia che ha perso, su nessuno di questi personaggi-tappe si ha la sensazione di scontato o di già visto. Sean Penn evita la continuità romanzesca e divide l’odissea di Alex-Chris in capitoli autosufficienti: il New Mexico, l’Arizona, il Sud Dakota e infine, l’agognata Alaska, tutti girati con uno stile che di volta in volta si adatta al contesto, facendo di ogni momento un bivio, un potenziale capolinea, che costringe a scelte struggenti, dolorose, traboccanti d’emozione senza mai essere patetiche. Suggellate da citazioni letterarie come Thoreau, Dostoevskij, Tolstoj e ovviamente Jack London, nume tutelare ed esistenziale, le scoperte di Chris nel mondo dei nuovi affetti stanno a simboleggiare la possibilità di un nuovo inizio; eppure vengono ignorate, pur di inseguire quell’ideale di purificazione e libertà che può consumarsi solo in solitudine. Sean Penn non nasconde la connotazione cristologica che la figura di Chris (eccezionale Emile Hirsch, ignorato come tutto il resto dalle scandalose nomination 2008 dell’Academy) pian piano assume. Il corpo dell’attore, di buco in buco aggiunto alla cintura di cuoio, svanisce, il volto smagrito dai capelli incolti, come la barba, rende Hirsch un’icona da Sacra Sindone, che risplende senza retorica alcuna nell’immagine del “big hard sun” finale, che tutto accoglie nella fede, nella redenzione, nella consapevolezza che “la felicità non è nulla se non è condivisa”.

Society, you crazy breed” – Oltre i libri, la musica. Il viaggio emozionale è amplificato nel risultato complessivo dall’incredibile (si passi il termine poco “critico”) colonna sonora che Eddie Vedder ha realizzato, in comunione perfetta con le intenzioni di Penn, due figure off star-system dure e pure. Il frontman dei Pearl Jam ha scritto i testi delle canzoni pensando alle vicende di Chris, non a caso i brani sono stati opportunamente abbinati alle sequenze del film in un sistema tanto ben funzionante che è assolutamente da considerare parte della sceneggiatura, in una partitura che comprende dunque immagini, canzoni e citazioni letterarie che fa di Into the Wild un affresco generazionale rivolto alla nostra generazione alla vana ricerca di valori e di mondi possibili in cui credere.

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