L’incomunicabilità dell’essere
Nonostante sia calato in uno spazio reale e mediatico come Tel Aviv, il film di Shira Geffen ed Etgar Keret fluttua sopra la guerra delle bombe e delle stragi come una fiaba. La macchina da presa coglie particolari e costruisce metafore, riuscendo a trasformare un ferro da stiro in una barca che solca le onde, cullata dalle parole di una poesia. C’è cuore in questo film, si sente ed è ben supportato da una regia decisa che guida gli attori, in parte non professionisti, e compone una poetica amaramente colorata.
Ognuno dei personaggi sembra incarnare uno stadio o un momento della vita: l’infanzia con la sua innocenza che non sempre viene salvaguardata, la giovinezza e la ricerca dell’identità, il matrimonio e il distacco dalla famiglia, la vecchiaia con i rimpianti e l’inesorabile perdita dell’autonomia, la morte. E come se fossero tutti nella stessa vita, ognuno cerca di lenire le ferite originate dagli altri in un tempo precedente o successivo. C’è una certa sensazione di straniamento nel seguire le disavventure di questi animi che si incrociano in modo così naturale e umano, ma si resta perfettamente coscienti della propria appartenenza a quel mondo di rabbia, dubbio e sfiducia in cui tanti vogliono comunicarsi da un manifesto o dalla tv e pochi si espongono e si disvelano quando sono davanti a una persona cara. Il finale ci porta a scoprire come paradossalmente (o forse no) è proprio chi non parla la stessa lingua a scoprire che c’è un esperanto fatto di gesti, sorrisi, corse e pioggia.
E parliamo di Tel Aviv, oggi. “La guerra esiste dentro ognuno di noi”, ha detto Shira Geffen, sceneggiatrice e co-regista, quindi niente bombe, niente stragi: la situazione è difficile, ma le persone vivono a Tel Aviv, una città di mare che con le sue onde trasporta i destini, come meduse.
A cura di
in sala ::