Oltre l’indifferenza dello sguardo
In bilico tra salvezza e riscatto, chiaro e scuro, deserto e palude; costruito sull’idea di luoghi come paure, persone come specchi, azioni come incubi, il cinema di Gus Van Sant ha sempre riconsiderato e ribaltato il comune senso di visione. Un concetto che va oltre la dinamica del guardare, perché pretende dallo spettatore un coinvolgimento successivo, necessario, faticoso, impegnativo, compromettente, che lo costringe ad aumentare l’ampiezza del proprio sguardo.
Per questo anche Paranoid Park è da considerarsi un film elephantiaco, cioè ingombrante, difficile da sistemare, ma anche potente, difficile da controllare.
Come accadeva per il deserto di Gerry (Id., 2002), la scuola di Elephant (Id., 2002) o la casa di Last Days (Id., 2004), anche questo parco è un luogo delimitato, con regole di sopravvivenza precise, leggendario e mistico, veicolo paradigmatico sul quale si muove l’intera vicenda. Un luogo che funziona da filtro in modi diversi: può essere la tentazione del proibito, l’incontro/scontro generazionale, la sfida, il coraggio o anche la propria anima da difendere o rafforzare.
Paranoid Park è un rifugio, ma anche una possibilità per chi non sa dove andare, cosa fare, come pensare, quando agire. Forse un antagonista o un buco nero. Comunque, un luogo di gioventù. Che per Van Sant non è bruciata, ma in costante, conflittuale e angosciante ricerca. Proprio come il suo cinema, che cerca e rivela l’ambivalenza e la contraddittorietà dell’animo umano.
Ma Paranoid Park è anche un film sul vuoto delle sensazioni, delle certezze, dei desideri e delle relazioni. È un film che parla ma che, automaticamente, lo fa allo specchio. Un film che sembra un racconto, ma che, poi, forse, non lo è. Un film che entra a far parte di un viaggio, ma che, poi, forse, se ne discosta, solo per poi ritornarci. Un film che si muove, come i corpi di chi perfora l’aria con lo skate, che parla (poco) e ascolta (molto), che suona una musica incessante, dolce e amara, aggressiva e morbida, secca e bagnata. Un film coerente che racconta l’incandescenza, ma non l’opacità o l’irrisolutezza.
Paranoid Park può essere tutto, ma non può essere niente perché, per davvero, entra nella mente, negli occhi e nel cuore di un giovane che finalmente conosce se stesso. Che finalmente si specchia con la vita e ne comprende la sua sovrapponibilità.
Van Sant sembra suggerire con straripante sensibilità l’inadeguatezza di chi non comprende e distingue giusto e sbagliato, acceso e spento, dentro e fuori, guerra e pace. Una chiave di lettura interessante che qui, come anche, e soprattutto, in Elephant, combacia con il modo di rappresentazione della classe adulta: un’entità lontana, sfocata, collocata in secondo piano sempre. Un controcampo mancato.
Paranoid Park è uno spazio e una conquista dove la comprensione dell’indifferenza è aderente sulla pelle di ciascuno. È una nuova declinazione di ciò che significano salvezza e perdono. Anche quando non si trova né l’uno né l’altro.
Curiosità
Audizioni per il cast fatte su My space. A questo proposito Van Sant ha detto: «Credo che dovrebbero farlo tutte le agenzie di casting che vogliono trovare dei liceali, soprattutto adesso che My Space ha una diffusione così alta. Abbiamo fatto come gli altri, cercando poi semplicemente di convincere degli appassionati di skateboard a recitare nel film».
A cura di Matteo Mazza
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