Tremate, tremate, gli ultracorpi son tornati
Sono tornati, sullo schermo per la quarta volta: gli ultracorpi, gli alieni, gli invasori, insomma, comunque vogliamo chiamarli. Non sono verdi e non hanno teste sproporzionate rispetto al corpo, anzi assomigliano drammaticamente a noi esseri umani contemporanei: vanno in giro apatici come zombie, e ti vomitano addosso quando meno te l’aspetti. Sono passati cinquant’anni dall’originale L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel, tratto dal bel romanzo The Body Snatchers di Jack Finney: siamo al terzo remake dopo Kaufman (Terrore dallo spazio profondo) e Ferrara (Ultracorpi – L’invasione continua), segno che la storia continua ad affascinare i registi, tra cui ultimo in ordine di tempo il tedesco Oliver Hirschbiegel (l’autore di La caduta), che vi ha intravisto – giustamente – la possibilità di trarne una rappresentazione e forse una morale sulla civiltà odierna, abulica e contagiata dal virus dell’indifferenza.
E l’inizio del film è in effetti coinvolgente: fa sempre bene vedersi nello specchio dello schermo-cinema e accorgersi che quello di cui si ha più paura, in fondo, siamo noi stessi e le nostre incapacità. Ma purtroppo il flusso di autocoscienza s’interrompe a metà, e lascia posto a una deriva che è quella dei film di genere: arrivata la catastrofe, resta l’eroe da solo a combattere col nemico alieno, e peggiorare le cose c’è che qui l’eroe è l’algida Kidman con figlioletto al seguito. Chissà se questa deriva ha a che vedere col fatto che la produzione ha allontanato Hirschbiegel e chiamato a sostituirlo i fratelli Wachowsky di Matrix, restando peraltro comunque scontenta (il film è rimasto nel cassetto per un anno). Un’ulteriore anomalia è il lieto fine, ovviamente assente nei film precedenti, che rimette a posto le cose e riporta la pellicola sui binari dell’immaginario collettivo stereotipato in cui “uomo batte alieno” e siamo tutti tranquilli.
Peccato davvero, perché la pellicola contiene spunti interessanti, sia da un punto di vista contenutistico (l’idea che la società si trovi in bilico tra coscienza e apatia, confine simbolicamente – ma neanche troppo – rappresentato dal sonno; la riflessione sul rapporto tra guerra/pace e essenza dell’umanità vivente e pensante) sia da un punto di vista filmico, con questi simil-umani dallo sguardo vacuo che si muovono ambigui all’interno dello spazio-schermo loro concesso dal regista, e che in effetti sono piuttosto inquietanti. Ma gli attori non aiutano: l’ex-007 Craig è più ultracorpo che corpo, la Kidman come spesso accade è molto poco “umana”. Qua e là c’è posto anche per un pizzico di ironia: lo vorremmo davvero un mondo in cui Bush stringe calorosamente la mano a Chavez? Forse no.
A cura di Antiniska Pozzi
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