Fatto di niente
Come le pagine bianche del romanzo di Baricco, il film di Girard si lascia abitare da grandi spazi, da ritualismi quasi immobili, da un tempo narrativo a ruota, che ritorna sempre su se stesso.
Sulla quarta di copertina della decima ristampa erano riportate le parole di Pietro Citati, la Repubblica: “Come Flaubert, [Alessandro Baricco] voleva scrivere ‘un libro fatto di niente’…”.
Quasi una spirale che si arrotola fino alla fine, Seta batte il tempo lento delle azioni e delle sue conseguenze che, incatenandosi, producono un racconto gentile e compito, dove si ha la sensazione di conoscere già ciò che avverrà.
Una trasposizione letterale, tanto puntuale da utilizzare una voce fuori campo, quella del protagonista Hervé, per rappresentare i toni riflessivi e silenziosi che il film vuole mostrare: candide distese, eleganti interni francesi, rigogliosi e fiabeschi giardini fioriti, raffinato esotismo, un mondo “orientale” fatto di incomunicabilità linguistica e suggestioni sensuali del corpo.
E le riflessioni sottovoce di Pitt sono il sibilo che scorre lungo le inquadrature: un’interiorità tormentata diventa il luogo perfetto da agghindare come una donnina dell’alta società.
Il mistero dell’amore e la sua magia sono racchiusi in gesti antichi e sguardi fugaci, in perfette composizioni visive spuntate fuori dalle parole di Baricco: Seta al cinema rimane ancora quel libro dalla perfetta formalità, racchiuso all’interno di un mondo precostituito in cui risulta difficile entrare se non si è amato il genitore letterario.
Liscio e senza increspature come lo era il romanzo, sullo schermo mostra non la profondità dell’immagine, ma la superficialità delle parole e della loro bellezza formale.
E non che la superficie del cinema non sia, a volte, esaltante e profonda, rutilante e eversiva come certo cinema americano riesce ad essere, da Burton a Tarantino, da Scorsese a Mann.
Ma il potere del cinema, la sua forza descrittiva e narrativa qui servono il mito di alcuni corpi filmici: quello di Keira Knightley, calmierato in una recitazione tacita che abusa semplicemente della sua presenza fisica per creare senso; quello di Michael Pitt, letteralmente attonito di fronte allo svuotamento operato su se stesso (ma forse inevitabile, per scrollarsi di dosso il peso di quel divo-fantasma mai così concreto come in Last Days, Gus Van Sant, 2005).
Infine, non ultimo, il divismo dello scrittore-star, davvero presente, che emerge con forza da ogni inquadratura, ricordandoci passo passo le pagine, le frasi, le atmosfere e i modi descrittivi di un romanzo di eccezionale successo. Di fronte al quale il cinema rimane muto.
Fimografia
• Seta (2007)
• Il violino rosso (1998)
• Trentadue piccoli film su Glenn Gould (1993)
A cura di Francesca Bertazzoni
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