Predatori nel New Mexico
Apertura sconvolgente con parto scellerato, stupri, cannibalismo, arti mozzati, orride malformazioni, vittime che emergono da latrine abbandonate e un deserto, quello del New Mexico, come soleggiato territorio “oscuro” solcato, nelle sue viscere, da profonde e interminabili gallerie sotterranee. Ieri, nel primo capitolo firmato da Alexandre Aja, i mostri mutanti avevano tormentato e sterminato con inusuale spirito sadico i membri della sventurata famiglia Carter. Unici superstiti, forse: Doug, l’originale protagonista occhialuto, intellettuale combattente per amor di prole (più che di patria), la sua figlioletta neonata e i due nipoti. Un’intrigante opera di genere dalla mattanza grondante, dove rancore tra clan rivali (quello dei belli e buoni e quello dei deformi cattivi) dipingeva con sovversivo spirito di denuncia il volto più cupo di un’ America nuclearizzata dai numerosi segreti. Oggi, un gruppo di giovani marines poco addestrati, orfani del capitano a causa di un incidente, si trovano a fronteggiare l’imprevisto.
Il male si nasconde in cunicoli, zone d’ombra e putride miniere fatiscenti. Rapisce con guizzi improvvisi alla luce del caldo sole desertico allo scopo di riprodursi e cibarsi e, come indigena forza caotica taglia gambe, teste, dita. Il bene, incarnato da baldi e giovani soldati, è costretto ad addentrarsi nei meandri del demonio. Unico desiderio, rivedere il sole, come flebile lucernario di salvezza. Un territorio sconosciuto e inospitale, dunque, alla base della storia. Un gruppo di esseri deformi a causa degli esperimenti atomici compiuti dal governo come velato “movente del delitto” e delle prede armate di fucile, molto meno di intelligenza.
Se Aja, regista dal talento certo (quanto spesso immaturo) aveva fotografato con impressionismi ritmici e visivi (da ricordare “Big Bob” Carter crocefisso e bruciato vivo e il villaggio abbandonato popolato di manichini), Martin Weisz si perde, come i suoi protagonisti, nei meandri di un genere horror lineare, senza colpi d’arte, più avvezzo al gusto della putrefazione che al sangue volutamente grottesco.
Personaggi meno originali, comunque interessanti. Restano i tipi umani che già avevano popolato il primo film: il pacifista che si trasforma nel peggiore degli assassini, il mostro buono, e la bella fanciulla dal capello biondo come contraltare dell’orrore. Logica, nella trama, spesso insensata, fin dall’inizio.
Il ritmo procede lineare, senza colpi improvvisi. L’impressionismo viene relegato a immagini volutamente eccessive (il parto e lo stupro) al limite del buon senso e del buon gusto. Eccellente la fotografia di Sam Mc Curdy, lo stesso di The descent (id., Neil Marshall, 2005) .
Ottima la dualità visiva e concettuale tra zone d’ombra e luce come metafora (si spera) dell’animo umano. Il mondo delle squallide gallerie sotterranee come covo dei malefici mattatori viene dipinto con carnale forza espressiva, evocando alla lontana le organiche e colanti pareti extraterrestri della saga di Alien.
Un buon horror, e il raccapriccio gioca la sua parte. Grazie al direttore della fotografia, un po’ meno al regista.
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