Il figlio fantasma di Mario Bava
Geniale o ridicola? L’ultima fatica di Lamberto Bava è in bilico tra le due categorie. Il film ha una costruzione scenica molto ben fatta, un ottimo cast, un’iconografia impeccabile, ma nel complesso risulta un lavoro disomogeneo.
Il figlio di Mario Bava dimostra di aver ben imparato le lezioni tecniche di papà, ma non amalgama il tutto intono alla storia che vuole raccontare. E a ben vedere anche la storia ha le sue pecche. In Africa, un allevatore di cavalli americano si innamora di una bella concittadina, che accetta di sposarlo e di rimanere a vivere con lui. Lui morirà per un infausto incidente, ma lei deciderà di fare di quel luogo straniero e di quella natura selvaggia la sua casa. Scoprirà di aspettare un bambino dopo la morte del marito (che sia stato il suo fantasma?) e la nascita del figlio, al posto che darle nuova linfa vitale, sembra invece nascondere un’oscura minaccia.
Il ghost son del titolo è appunto questo figlio. Bava voleva certamente raccontare una grande storia d’amore. Dissemina il film di simboli, di personaggi, di indizi che fanno capire come il tema sia la nascita con la “n” maiuscola e i cambiamenti (fisici, etici, morali) che una nuova vita porta con sé. Amore e morte, morte e vita. La stessa ambientazione africana, la culla dell’umanità, sottintende questa tematica. Eppure, nonostante le buone intenzioni, il fim non colpisce nel segno.
Il pathos delle scene thriller è ben congeniato, ma assolutamente vecchio agli occhi degli spettatori. Vi si trova tutto l’immaginario iconografico degli horror a cavallo tra i ‘70 e gli ‘80: casa isolata, casa stregata, spiriti, bambini demoniaci, donne in pericolo, forbici, supervomitata, lamette, amplesso con mostro, animali in putrefazione, gravidanza demoniaca, catenine che si impigliano, porte che non vogliono rimanere chiuse e anche un bel ragno, che si vede all’inizio e non se ne capirà mai il motivo. Manca l’assassino dai guanti neri, ma ci si può consolare “gustandosi” due docce e due bagni in vasca della bella e brava Laura Harring (la mora di Mulholland drive – id., David Lynch, 2002, qui in versione bionda), oppure ammirando la casa dove viene ambientata la storia, che sembra una rivisitazione africana del negozio di antiquariato di Sei donne per l’assassino (Mario Bava, 1964). Amalgamate il tutto e otterrete un horror vecchio di vent’anni.
Sebbene alcune inquadrature meriterebbero la spesa del biglietto, è difficile rimanere seri di fronte ad alcune trovate al limite del ridicolo legate ai comportamenti del ghost son. Non anticiperemo nulla per non rovinare la sorpresa, ma dopo la visione saprete se propendere per il “geniale” o il “ridicolo”.
A cura di Sara Sagrati
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