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Storia, pittura e cinema

Storia, pittura e cinema

Quale verità di Francesca Bertazzoni *******

Milos Forman tratteggia ancora la vita di un grande personaggio, dopo Mozart, dopo Larry Flint, dopo Andy Kaufman. E ancora una volta la domanda è: “Dimmi qual’è la verità”.
Il film come una galleria delle opere del pittore: nei titoli di testa Forman presenta le stampe litografiche di Goya, che con la loro forza spaventosa incutono diffidenza nei religiosi spagnoli.
Litografie che sono appunti visivi della realtà, schizzi sull’insensatezza e la brutalità dell’Inquisizione, dalle carceri, ai processi, alle pubbliche esecuzioni. Sui titoli di coda sfilano i grandi quadri del pittore, da Fucilazioni del 3 maggio 1808 a Il colosso. Durante il film, il regista mostra un pittore in bilico tra la propria arte viscerale e la necessità e desiderio di continuare a far parte dell’enturage dei reali e dei potenti. I ritratti, che si prefissano di essere maggiormente accademici, lasciano però stupefatti i committenti per quell’inquietante capacità di Goya di far emergere l’intimità dei soggetti. Capacità che viene scambiata puntualmente per “bruttezza” formale.
Catturare la realtà dell’uomo diventa un compito impossibile: la regina Maria Luisa risulta “brutta” nel suo ritratto a cavallo. Il pittore si stupisce e non comprende: il ritratto dei reali in La famiglia di Carlo IV è risultato così innovativo proprio perchè Goya riuscì a catturare, con un’ironia impensabile per un pittore di corte, la loro povertà e vanità.
Dov’è La verità nella pittura di Goya? Nei volti ritratti con “realismo”? Nelle litografie così formalmente crudeli e scarne? O nei dipinti onirici e inquietanti che lasciano spazio all’irrazionalità e all’orrore?

Il male ritorna sempre nella storia. Forman ci mostra, come di recente ha fatto Paul Verhoeven con il suo Black Book, l’eterno balletto tra carnefici e vittime: la giustizia è sempre cosa labile e interpretabile, l’oppressione è l’unico metodo che gli uomini sembrano conoscere per imporsi gli uni sugli altri.
Padre Lorenzo, uomo simbolo di un’oppressione camaleontica che cambia d’abito ma non di sostanza, non si riconosce del suo ritratto: egli infatti non fa altro che indossare diverse personalità (e qui davvero l’abito è sintomo di un cambiamento superficiale) dentro le quali nascondere un’anima cattiva. Egli è uomo di Dio e stupratore, fervente inquisitore e illuminista, amico e padrone.
Un vero e proprio fantasma senza volto, di cui viene condannata al rogo l’immagine: i potenti della Chiesa bruciano l’effige per cancellare dalla memoria l’uomo raffigurato. E in effetti Padre Lorenzo “muore”, per tornare a nuova vita come rivoluzionario di Napoleone.
L’illuminismo spagnolo, a cui Goya era legato, mostra così i suoi limiti e la sua ottusità: i francesi invadono, saccheggiano e portano il loro verbo con la stessa brutale ferocia dell’Inquisizione: una vera giustizia è davvero irraggiungibile.

Padre Lorenzo è un fantasma senza volto, ed è Goya stesso a sceglierlo: un uomo dalla doppia vita, che riesce a essere carnefice e vittima in due tempi diversi. Prima bruciato come immagine, poi ucciso come corpo, Lorenzo incarna tutta l’irrazionalità e l’istinto degli uomini che possiedono un potere malvagio.
Ines è l’altro fantasma di Goya, un’ispirazione, un angelo, è l’innocente torturato che porta il peso di una colpa mai commessa. Al contrario di Padre Lorenzo, Ines non muore, perchè il suo ritratto ha conservato la bellezza che lei ha ormai perso. Cadaverica fuori dalla prigione, torna a vivere un’altra vita, ancora da oppressa: sua figlia, la prostituta Alicia, la sua nuova vita, porta addosso il peso di essere ancora oggetto del potere come lo era stata sua madre.
Lorenzo e Ines sono due segni, simboli di oppressione e follia, di illluminismo e peccato, corpi che si incontrano e si scambiano durante i sussulti della storia, incapaci di trovare la via della verità. Alicia rimane su un balcone con i potenti di turno (inquadratura ispirata al quadro di Goya Mayas al balcone): anche se il torturatore Lorenzo è morto, non c’è salvezza, nessuna redenzione.
Goya osserva questi segni visibili della storia: è stato l’addolorato ritrattista di un mondo ingovernabile e notturno, con la sordità che lo isolava dal mondo, e che lo ha portato a osservare, senza pretendere di capire, la malvagità. Così Forman non pretende di rispondere alla domanda: “Dimmi qual’è la verità”, ma preferisce stendere sulla Storia l’intreccio delle vite immaginarie di torturati e torturatori, lasciando che ladomanda acquisti più significato di qualsiasi risposta.
E non solo a chi conosce la storia dell’arte, ma a tutti, i dipinti di Goya nei titoli di coda acquistano un significato completo, mantenendo il mistero della storia e la sua brutale verità.

Mani difficili da dipingere di Antiniska Pozzi *******

Nessuno si aspetta l’inquisizione spagnola. E ancora, una volta arrivata, nessuno si aspetta che assuma certi volti, certi corpi e certe aberrazioni. Forse è proprio dallo stupore che sono nati alcuni dipinti e incisioni di Francisco Goya, pittore di un mondo impazzito e incoerente che non sapeva più distinguere l’eresia dalla personalità, e che per ribadire la differenza tra l’uomo e Dio aveva finito col rendere l’uomo un dio, arrogandosi i più alti poteri celesti.

Milos Forman torna a distanza di sette anni da Man on the moon (id., 1999), con la consueta passione per la biografia, anche se qui il personaggio di Goya è più che altro usato come punto di vista, come occhio interno alla storia prestato a una prospettiva onnisciente, quasi sacrificato alla causa della narrazione. E’ suo lo sguardo che si posa su di una gallina che svolazza impaurita al rimbombo dei colpi dell’artiglieria francese, è l’occhio del pittore Goya che guarda gli occhi svuotati di Ines Bilbatua, è l’occhio dell’uomo Francisco che assiste al triste e necessario circo dei sovrani di Spagna. Ma questo film non parla di Goya, benché suoi siano i fantasmi cui allude il titolo, bensì ne prende in prestito la persona storica e l’opera artistica per parlare di altre vite incrociatesi in un tratto di Storia: quella dell’inquisitore Lorenzo Casamares convertito all’illuminismo (!) francese, quella di una ragazzina dai tratti celestiali divenuta vecchia e pazza senza esser mai stata donna.

C’è l’arte del genio a far da filo rosso tra le vite dei personaggi, c’è l’attenzione dichiarata per il dettaglio, quella del pittore Goya, quella del regista Forman, che si conferma ancora una volta straordinario direttore d’attori: la prova di Bardem è superba, soprattutto nei panni di padre Lorenzo, con quella testa inclinata in atteggiamento di falsa pietà, la voce pacata e viscida,

le mani rivelatrici di peccati nascosti, superbia e lussuria in primis…
Le mani. Le mani sono difficili da dipingere, rivelano l’attitudine, costano parecchio. Danno una chiave di lettura, ma non bastano a fare un ritratto. E’ così, questa ultima pellicola del regista di Amadeus (id., 1984): più dettaglio di mani che ritratto, più pennellate qua e là che affresco. Spunti, immagini, ben costruiti ed efficaci, ma senza l’impronta forte di un’idea geniale, senza quel gusto un po’ cinico per le beffe crudeli dell’esistenza che traspariva in altri film del regista. Ma va bene così, in questo film cupo e in fondo disordinato come l’epoca di cui narra, intransigente solo all’occorrenza, contraddittoria e attorcigliata sui propri paradossi filosofici come una corda per torture usata troppo a lungo.

Curiosità
Il ritratto di Ines si riferisce al vero ritratto di Antonia Zaratè del 1811

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