I significati dell’epica
The show must go on di Alberto Brumana ********
Mi fa sorridere quando un film viene definito come “tratto da una storia vera”. Come se un’opera di finzione possa essere più interessante se tratta da un avvenimento realmente accaduto piuttosto che inventata di sana pianta da uno sceneggiatore.
Allo stesso modo mi fa sorridere chi critica un film come 300, mettendolo in croce per l’inesattezza dei suoi riferimenti storici. 300 prende spunto dalla vera battaglia delle Termopili, si basa sul fumetto di Frank Miller, che la rilegge romanzandola, ma è semplicemente un’opera che fa dell’assoluta e palese finzione la sua forza maggiore. Il film di Zach Snyder è stato tacciato come falsificatore della storia, di cui avrebbe dato un’interpretazione quasi fascista, con i buoni conservatori idealisti e quasi ariani contro gli invasori brutti e cattivi dal medioriente. Il dubbio che questa interpretazione possa essere valida nasce dal fatto che c’è chi al contrario ha visto il film come una critica ai poteri forti, con gli orgogliosi soldati spartani nei panni di “operai specializzati” mandati al massacro dai “padroni” ateniesi. Ora, capisco che citare Umberto Eco possa sembrare un espediente abusato, però quando quarant’anni fa parlava di decodifica aberrante, cioè della possibilità che uno spettatore possa assegnare a un messaggio dei significati che l’autore non aveva alcuna intenzione di fornire, non aveva certamente torto.
Perchè 300 deve essere preso per quello che è: un film epico che contrappone bene e male non come due forze politiche, ma come due valori assoluti. È come in una favola, con protagonisti e antagonisti, oppure in un incontro di wrestling, in cui buoni e cattivi si sfidano a furia di improbabili calci volanti senza che ci si debba domandare se uno sia di destra o di sinistra. E se anche un lottatore non sarà un attore provetto, questo non conta, perchè l’importante è lo spettacolo, l’entertainment. L’essere così maturi da saper tornare bambini, per 113 minuti. In fondo il cinema non dovrebbe essere l’arte del sogno?
Onore o odio? di Gianmarco Zanrè *
A volte è triste osservare come la Storia, e l’esperienza che da essa stessa proviene, a nulla serva se non a renderci più ciechi. Zack Snyder, regista di quest’inguardabile best seller del momento, in più interviste ha dichiarato di aver portato sugli schermi lo spirito della graphic novel di Frank Miller quasi mosso da uno spirito ludico: dato per certo che, ricordando così nettamente uno dei tanti videogame splatter in circolazione, il secondo aspetto sia assodato, non riesco a credere che un uomo di quarant’anni e di media cultura possa anche solo immaginare 300 come un divertissement. Serse e Leonida, il primo che cammina sui sudditi in ginocchio, il secondo che, in ginocchio, si fa usare come trampolino per innescare l’ennesima catena di uccisioni dei suoi, appaiono come due lati della stessa, tremenda, pericolosissima medaglia. In un mondo ancora – e purtroppo – preda di tensioni razziali, timori culturali, differenze sociali, imbastire una sorta di flipper sadico basato sul concetto “il diverso è il male”, appare quanto mai discutibile. A questo si aggiungano un citazionismo spesso fuori luogo – dalla trilogia del Signore degli anelli al Gladiatore (Gladiator, Ridley Scott, 2000), da Hero (Ying Xiong, Zang Yimou, 2002) a Braveheart (Id., Mel Gibson, 1995) -, macchiette spacciate per personaggi, dialoghi a sfiorare il ridicolo, e poco resta, se non sperare che, almeno, il pubblico possa non prendere sul serio un prodotto come questo. Nel corso della pellicola assistiamo, oltre al sistematico utilizzo della slow motion a catturare le più cruente scene di battaglia, all’abuso sconsiderato di una parola – libertà – che viene spesso e volentieri associata all’uccisione senza pietà del nemico o a una morte onorevole consumata sul campo di battaglia. La libertà sta anche nel pensare che possa essere quella. Ma, per quanto mi sforzi di cercarla, di quella con la L maiuscola, non ho visto alcuna traccia.
Tralasciando le spesso strumentalizzate politicizzazioni di questa già troppo chiacchierata pellicola, la semplice presa di coscienza rispetto allo script, alle situazioni, allo sviluppo dei protagonisti, porta a indicare l’odio, viscerale e senza riserve, verso tutto ciò che, dall’esterno, minaccia, culturalmente o fisicamente, lo stato delle cose. Pur ammettendo che i tempi di cui si parla fossero profondamente diversi (?) dai nostri, è difficile poter pensare all’onore di un capitano che porta alla morte il figlio dichiarando al suo re Leonida che il sacrificio di quest’ultimo è ammissibile perché altri restano a Sparta, disperandosi poi per quella stessa perdita, dichiarando di avere riempito il suo cuore d’odio; difficile credere a parole di libertà di una regina che si proclama donna del popolo e zittisce il suo avversario politico trafiggendolo con una spada; difficile credere a un manipolo di “eroi” fisicamente perfetti e mentalmente annullati pronti a debellare la minaccia di effeminati, freaks, mostri provenienti dalle più disparate regioni del vastissimo impero persiano. Il valore, storico e umano, dell’impresa militare di Leonida e dei suoi opliti, non solo è svilito, ma vilipeso, e molto direttamente, da uno scempio cinematografico e ideologico come questo. In tempi certo diversi, ma non meno importanti, un certo Gandhi cambiò le sorti di un intero paese senza alzare un dito. Fabrizio De Andrè, interpretando al meglio la figura di Gesù, cantava «nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore». Clint Eastwood, con Flags of our fathers (id, 2006) e Lettere da Iwo Jima (id, 2007), ha mostrato, con un filo di voce, quanto terrificante sia l’odio nascosto dalle guerre, politiche e militari.
Il nostro mondo sarà un posto migliore quando riusciremo a crescere figli senza Leonida e Serse a portarli alla morte, senza imperi che vogliano colonizzare il mondo e Sparta che educhino i bambini alla guerra. Il buon Zack Snyder, prima di mettersi ancora dietro la macchina da presa, torni a confrontarsi con E Johnny prese il fucile, che Dalton Trumbo scrisse nel 1938 e diresse nel 1971. Potrebbe servire. Dilios/David Wenham, narratore della pellicola, incita i suoi prima della battaglia di Platea a difendere la libertà «contro i misticismi e la tirannia». Detto da gente che gettava dalla rupe i bambini nati con qualsivoglia handicap, è quasi fantascienza. Ma chissà… forse è qui che voleva arrivare questo film.
A cura di Alberto Brumana
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