Incroci e rinascite carine
Sfruttando la formuletta dello scambio di vite, spesso utilizzata al cinema come segno della riconquista della propria esistenza e dei propri valori, il film di Nancy Meyers strizza l’occhio allo spettatore più volte, riuscendo comunque a non invaderne eccessivamente il grado di autonomia e libertà. L’amore non va in vacanza è un film carino. Nella forma, perché sfrutta i codici della commedia sentimentale dislocandoli in luoghi suggestivi come Londra e Los Angeles, raccontando l’atmosfera di due città lontane e diverse come le due protagoniste. Nel contenuto, perché dedica ampio spazio alla questione sentimentale, riuscendo a individuare i punti centrali, per alcuni la cosidetta “morale” del discorso, ovvero la consapevolezza di essere sè stessi sempre, al di là della persona con la quale si sta. Nell’idea, perché in fondo i due personaggi ritrovano due elementi fondamentali per l’essere umano: l’equilibrio e la passione, che si incontrano, ovviamente, nell’amore.
Ma oltre alle dinamiche sentimentali, più o meno glam (Diaz e Law sembrano creati al computer, Winslet e Black, invece, sono all’estremo opposto) il film della Meyers è carino anche perché dosa con cura, simpatia e ritmo, battute e dialoghi. Inoltre, come già era accaduto nei due precedenti film della regista, What Women Want (id., 2000) e Something’s gotta give (id., 2003), la centralità della figura femminile è graziosa. C’è poi da considerare tutto il discorso fatto intorno al cinema, alla sua storia e ai suoi creatori. Oltre alla figura dello sceneggiatore Eli Wallach, giunto da parecchio sul viale del tramonto, metafora di un cinema che non c’è più e che non si fonda su storie scritte e consistenti, c’è il valore del soundtrack, dove Jack Black prende il sopravvento per conoscenze, nella sequenza in videoteca, oppure il significativo contrasto tra carriere rappresentato da chi vive sulla notizia come Iris e chi invece vive sul cinema come Amanda, costretta a farlo a pezzettini piccoli e velocissimi da confezionare in un trailer.
La Meyers dosa ma non osa. Il suo metacinema, che agisce per inserti e addizione, tra vento che soffia caldo e neve che fiocca abbondante, che non sottrae nulla alla parola, a volte invadente, abbandona ogni tanto lo spettatore all’unico esercizio sensoriale dell’ascolto e non va oltre. Un film carino, lasciato a metà. Che forse non riesce a rendere merito all’intenzione iniziale di gratitudine nei confronti del cinema che non c’è più, del pubblico che non c’è più. O forse era solo una convenzione, una comodità per non impegnarsi del tutto. Insomma, lacrime divertenti e didascaliche. Non voleva essere graffiante e infatti non lo è affatto. Anzi, accarezza.
A cura di Matteo Mazza
in sala ::