A tavola ci si guarda (?)
La grossa quantità di materiale umano offerto da Pupi Avati è l’essenza del film. Non è l’unica, ma forse è la più importante. I personaggi descritti dal regista bolognese si muovono come creature autonome, spontanee, genuine. Personaggi e storie vere, vissute, fatte di esperienze che modificano e indirizzano la vita di ciascuno, anche attraverso i successi o i fallimenti. Un padre e tre figlie, più una donna, che si incontrano e si guardano negli occhi. Una cena per conoscersi e provare a mettere insieme pezzi di vita, diversità, apparenze e contrasti. Un tentativo che sa di fallimento. Perché la cena è solo un pretesto. Un’occasione, come suggerisce Alma Kero a Sandro Lanza, sfuggita perché non colta. E infatti, anche dopo la cena, le strade si dividono nuovamente. Il matrimonio di Betty prosegue, sprofondando sempre più nell’inadeguatezza del rapporto, quello di Clara nuota nell’alcol del marito, e la vita di Ines va avanti con il solito spirito combattivo, superando gli ostacoli e trovando gratificazioni e senso, come accadeva prima, nel lavoro. Nulla cambia, perché pure Sandro Lanza rimette le vesti di uomo solitario e solo. E allora perché la cena?
La nostalgia e la tristezza che da sempre imbandiscono la tavola del cinema di Pupi Avati, innaffiate da litri di cinismo e sguardi su realtà passate e incubi attuali, come tutti i riferimenti al mondo dello spettacolo e alla tivù trash nel vero senso della parola (Lanza, disperato, accetta di fare le prove per un reality allestito sotto le fogne di Milano), sono un’amplificazione di un concetto più volte ripetuto nel film. Gli errori si pagano con le conseguenze. L’uomo può rimediare, ma cambiare non si può, perché anche l’errore può portare (a) qualcosa di buono. E’ il solito Avati che parla. Nostalgico e rammaricato, in preda a sconforto. Triste, non lui, il film.
La cena allora è un’occasione per guardare negli occhi tutto il materiale umano che si siede a tavola, e accorgersi di quanto sia imbrigliato nelle relazioni a senso unico, nelle illusioni amorose, nelle sconfitte affettive, nei compromessi e nelle umiliazioni. Non ci sono messaggi di speranza, perché in questa famiglia così sfasciata, così poco collegata, in preda alla mancanza di comunicazione sotto ogni aspetto sensoriale, non esistono vie d’uscita cinematografiche. Non c’è una soluzione che può riappacificare e cambiare le cose. Neppure la sterzata di sceneggiatura più abile potrebbe restituire felicità e quiete. Perché Avati sceglie di raccontare l’amaro e la consapevolezza. Non solo il male e il bene, ma ciò che stà nel mezzo. E questo, a volte, gli procura qualche danno, come in questo caso. La verbosità comporta meno comunicazione per immagini. “La cena”, di conseguenza, non si può sfiorare come Il cuore altrove (2002) o La seconda notte di nozze (2005).
Abbraccia, forse, “le ragazze” (Ma quando arrivano le ragazze?, 2004) e lascia la porta aperta al tempo che passa. Una forma filmica che sfiora il patetico con la voce fuori campo e l’insistenza di certe “freddezze morali” (la neve, i flash delle foto, il ritorno sul set di Lanza, il video). Un’immagine che spesso risente della frenesia dell’intreccio, dei balzi temporali e dei cambiamenti spaziali. Ma oltre a questo, si rintraccia, al momento giusto, la voglia di comunicare. Durante la passeggiata notturna di Sandro Lanza, quando l’immagine dell’uomo solo che scende le scale si sovrappone a quella di una celebre pubblicità che rimanda al significato della famiglia. L’immagine mette in mostra l’unità irraggiungibile o, forse, da molti sognata.
A cura di Matteo Mazza
in sala ::