A night to remember
Il lato oscuro della democrazia
Nella memoria di molti dei testimoni di quel 6 giugno 1968, quando Ethel Kennedy scortò il marito morente sull’ambulanza che inutilmente corse al Good Samaritan Hospital, sarà tornato alla mente come una ferita riaperta il fatale giorno di Dallas in cui perse la vita il fratello maggiore del candidato alla presidenza Robert Kennedy, il più noto Jfk. Gli Stati Uniti, nazione simbolo (?) della democrazia, per la seconda volta in neppure dieci anni, escludendo, in questo, altre morti fondamentali come quella, più volte citata nel corso della pellicola, di Martin Luther King, furono scossi da atti volti ad alimentare paura, violenza, tensioni razziali e, mai dimenticarlo, continuare a sostenere una campagna – quella della guerra in Vietnam – dal prezzo enorme in termini di vite ma, con molta probabilità, dal grande guadagno in termini di armamenti.
Estevez, che tutto appare potersi definire tranne “neocon”, torna dietro la macchina da presa optando per la scelta di narrare l’evento attraverso le esistenze collaterali di ben ventidue personaggi provenienti dai più disparati strati sociali presenti all’Ambassador quella fatale notte e orchestrando l’alternanza fra il girato di fiction e stralci di documenti d’epoca, soprattutto concentrati sui discorsi e gli obiettivi di Robert Kennedy, che, di fatto, nel corso del film non compare mai se non celato abilmente dalla macchina da presa, e soltanto nel finale.
Un’operazione di recupero molto importante, che riporta alla mente il valore aggiunto di leader coscienziosi e carismatici agli occhi della gente comune, soprattutto di chi, per arrivare a fine mese, deve lottare con tutte le sue forze e non ha tempo di preoccuparsi anche di chi, mosso da interessi “alti”, brucia il denaro e i figli di un intera generazione, destinazione il fronte. Emblematiche, in questo senso, le parti del racconto dedicate a Elijah Wood e Lindsay Lohan, così come il passaggio della centralinista pronta a raccogliere il cibo del buffet alla festa del senatore Kennedy. Uno Stato, piccolo o grande che sia, è tutto sulle spalle di queste apparentemente piccole vite.
Ricordando un altro Robert
Se, da un lato, la pellicola di Estevez appare quindi accorata e coraggiosa, dall’altro non ci si può esimere dal sottolinearne numerose ingenuità, soprattutto in fase di scrittura, capaci di minare le parti e le interpretazioni migliori di un cast all-star con momenti di un buonismo sin troppo facili. Come lo scorso anno Crash (id, Paul Haggis, 2005), poi vincitore dell’Oscar come miglior film, Bobby è un lavoro incentrato sulla coralità e sull’importanza dei personaggi e delle performance attoriali, eppure, nonostante il Robert d’esempio, il grande Altman, incapace di ottenere dal racconto stesso la forza dirompente di un affresco in grado di lasciare senza fiato. Hopkins e Belafonte, simpatici ex dipendenti in pensione, o il saggio cuoco Fishburne, portano con sè un’aura di moralismo a tratti decisamente irritante, quasi fra la gente comune di cui poco sopra sottolineavo le virtù non fossero presenti anche difetti. Decisamente meglio riuscita, in questo senso, la descrizione del rapporto fra l’irritante, razzista Slater e il direttore Macy, due uomini forse più simili di quanto le rispettive immagini proiettate all’esterno possano raccontare.
Dal punto di vista prettamente tecnico, meritano menzione le interpretazioni di Sharon Stone e William H. Macy così come alcuni passaggi in cui Estevez dà prova di una buona abilità nell’utilizzo della macchina da presa, culminata nella sequenza dell’abuso di Lsd da parte dei giovani appartenenti al partito, in cui le immagini della guerra in Vietnam fanno capolino dalle porte di un armadio. Irritante, di contro, la colonna sonora, in perfetta linea con i momenti peggiori della sceneggiatura, e non sempre ineccepibile il montaggio.
Il coraggio del regista di sente, il cuore anche: la prossima volta, forse, non mancherà l’equilibrio necessario per avvicinarsi, almeno di un altro passo, all’inarrivabile Mr.A.
Curiosità
La stesura del copione ha richiesto a Estevez ben sette anni di lavorazione interrotti da una lunga pausa dovuta, pare, a una sorta di “blocco dello scrittore”. La stessa lavorazione del film ha incontrato numerose difficoltà, soprattutto di natura economica.
A cura di Gianmarco Zanrè
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