Born to lose
Cold as ice
Basterebbe solo la prima sequenza a far gelare il sangue come solo lui sa fare: Aki Kaurismaki, delicato, glaciale, dolce, spietato vate dei silenziosi perdenti d’inverno è tornato. E anche se è primavera, nelle sue pellicole fa sempre freddo. Ancora una volta il tema centrale, o perlomeno il centro di gravità delle riflessioni – e della sconfitta – dei protagonisti è l’amore, sogno impossibile filtrato attraverso una vita spesso vissuta ai margini di una società inquadrata e perfetta come le statiche immagini notturne di un Helsinki quasi sempre deserta. Koistinen, silenzioso protagonista, mostra le caratteristiche che furono dell’indimenticabile fiammiferaia, più che del certamente più vincente uomo senza passato: una sorta di passo indietro del regista nella riflessione sul male e sull’incapacità umana – o perlomeno, sull’inutilità degli sforzi profusi – di sconfiggerlo, imponendosi su di esso. La parabola discendente del protagonista, non per nulla guardia giurata, tutore di un ordine spesso confuso, nonostante le apparenze, è netta quanto inevitabile, dal confronto con i colleghi agli uomini del bar, dai poliziotti fino al faccia a faccia finale con il nemico causa della sua rovina. Un’impossibilità totale di vittoria, aggravata, senza dubbio, dalla cieca rassegnazione del protagonista di fronte agli eventi che precipitano e dall’impietosa pietà del male stesso, che non libera la sua vittima, ma ne preserva l’essenza quasi a potersene servire una volta ancora. Il pensiero potrà apparire sconfortante, eppure, in tutta questa fredda sincerità, Kaurismaki non dimentica che i perdenti hanno un vantaggio rispetto alla vita, e al male che, inevitabilmente, nasce con essa. Una seconda possibilità.
Senza speranza di sconfiggerlo, il male, di contro, non può sussistere. Bentornato, Aki.
L’essenziale è invisibile agli occhi
Tecnicamente parlando, è difficile affrontare la disamina di un lavoro di Kaurismaki: non tanto per l’innegabile capacità di narratore del cineasta finlandese, in grado di richiamare più spesso il film muto che non uno qualsiasi dei generi attualmente più “in voga” rispetto a critica e pubblico, come attualmente solo lui e Kim Ki-Duk sono in grado di proporre. Lo è perché, dopo più di vent’anni, appare ormai evidente e consolidato il suo “marchio di fabbrica”.
Ripensando, infatti, ai suoi splendidi primi lavori, pare che il regista si sia concentrato molto più su una ricerca di natura filosofica che non stilistica, conservando la sua cifra con la stessa freddezza con la quale ci ha ormai abituati a riprendere le vicende dei suoi protagonisti. Si tratta del più classico ago nel pagliaio, ma di certo, se questa fosse stata la prima pellicola del cineasta, si sarebbe potuto gridare a un piccolo miracolo. In questo modo, conservando, e fin troppo, se stesso, siamo costretti a definirlo, “semplicemente”, il nuovo Kaurismaki.
Senza discostarci dall’aspetto tecnico, è interessante notare come lo stesso regista si sia occupato di sceneggiatura e montaggio, realizzando passaggi, soprattutto per quest’ultimo, decisamente interessanti, che ben supportano la splendida narrazione di alcuni picchi scenici mai mostrati, ma sempre raccontati fuori campo, giocando con l’intuizione dello spettatore, con un operazione simile a quella effettuata da Michael Haneke nell’esclusione quasi totale della violenza mostrata nei suoi Funny Games (id, Austria, 1997) e Il tempo dei lupi (Le temps du loup, Francia/Austria, 2003).
Diversa la poetica, ugualmente grande il risultato.
Curiosità
Le luci della sera era già stato scelto dalla commissione finlandese come rappresentante del paese alla candidatura per l’Oscar come miglior film straniero, quando Kaurismaki ha comunicato la sua volontà di non voler far partecipare la pellicola alla selezione stessa. Nella corsa ai premi dell’Academy 2007, di conseguenza, non ha preso parte alcun film proveniente dalla Finlandia.
A cura di Gianmarco Zanrè
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