Le piramidi del tempo che fu
Le piramidi del tempo che fu Alessia Flavia Vitale ********
Un Maya, il suo destino, la sua corsa verso una libertà rinnovata. Una piramide, sopra gli alti dignitari del potere, sotto il popolo adorante che recrimina sangue. E ha inizio il sacrificio umano. Riti di arcaica rimembranza in cui sarcedoti e indovini immolano vittime su altari in nome del dio sole, cuori estirpati da corpi vivi, teste mozzate come offerte divine.
Frammenti di archeologia persi nel tempo, miti, credenze ancestrali e una civiltà potente e oscura intrisa di zone d’ombra e luce, fasti e decadenza, morte e rinascita. La storia maestra di vita estrapola verità antiche rendendole valide nella modernità, e altrettanto Mel Gibson, regista carnale e tormentato, ci racconta con geniale abilità tecnica un mondo perduto fatto di sangue, rituali, estasi sacre, lotte intestine, schiavitù, presagi funesti. Un grande impero, quello Maya, destinato a estinguersi con l’avvento dei conquistadores. Il dionisiaco, già ampiamente descritto da Herzog come antitesi enigmatica alla ratio umana, diviene protagonista scrutato con occhio infallibile in tutti i suoi tratti: infantili e sanguinari, recessivi ma pur sempre attuali. Un gusto unico, quello di Gibson, nel descrivere l’ancestrale in sé, nudo e crudo, nella sua semplicità. Poche metafore, nelle sue opere, poche allegorie o desimbolizzazioni, semplicemente società arcaiche studiate e raccontate come tali. Il pensiero dell’intellettuale contemporaneo che analizza e ingravida di contenuti “moderni” il mondo che fu cede il passo a un sistema narrativo originale che carica di forza e pregnanza un film dai contenuti oscuri quanto il mondo antico che racconta. Emergono delle verità, quelle dei maya, molto meno le nostre. Emerge un parlato fascinoso e perso nel tempo, il dialetto maya yucataneo, che consente allo spettatore di immergersi per poche ore in un mondo enigmatico e per molti aspetti incomprensibile: l’antichità.
Un uomo “come tanti” per protagonista, forte e vulnerabile allo stesso tempo. Il desiderio di vita, nella morte, diviene vis eroica. La paura, come terribile nemico che attanaglia e rende impotenti, il vero flagello di ogni popolo. Un ritmo perfetto, senza sbavature. Musiche studiatissime, tribali, ritmate, come il movimento inarrestabile che scandisce, senza sosta, velocissime rappresentazioni visive. La cinepresa (ad alta definizione) corre, scivola e sguscia come un felino nella giungla. Una rapidità fulminea trasuda dalle immagini, adrenalina, fatica, corsa e pelli scure si fondono con la vegetazione, in tutte le sue sfumature. Muscoli, nervi, tendini guizzano tra salti e combattimenti, così sangue e sudore. L’anima della foresta, la città perduta gremita di enigmatiche costruzioni, trucchi, abiti e orpelli ricercati avvolgono di fascino la storia.
Una ricerca storico / archeologica verosimile, garantita da un preparatissimo staff di esperti nel settore e costumi studiatissimi, fin nei minimi dettagli. Mel Gibson firma un film forte ma non eccessivamente sanguinario, dato il soggetto, checchè ne dicano i suoi detrattori.
La rivelazione di Mel Gibson di Francesca Bertazzoni ******
La paura. Il primo male che si insinua nella piccola comunità di Zampa di Giaguaro è la paura, vista negli occhi di uomini e donne che sfuggivano a un nemico oscuro. Paura per un nemico che conquista, terrore di vedere il proprio mondo finire improvvisamente.
La paura è un volto sfigurato e distorto che invita alla fuga. Con questo atteggiamento il villaggio di Zampa di Giaguaro diviene preda dei guerrieri, deportato e sottomesso al grande spettacolo del sacrificio umano. A spingere verso la morte il protagonista è la paura, che lo rallenta nella fuga e lo fa sanguinare. Quando Zampa di Giaguaro si libera della paura, che gli sta attaccata alla pelle come una tintura azzurra, inizia il suo cammino verso la libertà: il tuffo nella cascata lo monda, è il battesimo che segna il suo nuovo inizio; con un corpo pulito, riesce a predicare il suo credo contro il nemico: la ferma fiducia nell’immutabilità di un diritto acquistato nel tempo, il possesso della foresta come luogo di caccia dei suoi antenati e della sua progenie, è il grido orgoglioso di chi non vuole essere conquistato. Così, rinasce dal fango come un Golem o un uovo Adamo, sale dalla terra e, per la prima volta, si oppone al nemico.
Lo show è il potere. La grande cerimonia dello scempio dei corpi è cosa che gli uomini conoscono bene. Segno di potere di fronte al popolo e metodo di dominio sul nemico, lo spettacolo della violenza fa parte di un progetto politico di controllo: per combattere una carestia, gli uomini di potere Maya, imperatore, sacerdoti e strateghi, scelgono il sacrificio di sangue umano a un Dio che, in risposta, oscura la sua luce e la ridona ai suoi, sazio. Una manipolazione della realtà, dunque, l’utilizzo consapevole di un fenomeno naturale, l’eclissi di sole, per i propri scopi politici. Simboli spettacolari visti da milioni di persone, utilizzati per acquistare potere sul popolo.
La rivelazione. L’apocalisse spezza a metà il film e Gibson dona a una bambina il potere di predire il futuro, con quello che appare più come un anatema di morte che una rivelazione di un nuovo inizio. Una bambina perché i figli sono le vittime dei padri, perché, in qualche modo, i padri sono diventati sterili, come il fratello di Zampa di Giaguaro. I Maya, a loro volta, non sono interessati ai figli: allontanano i piccoli prigionieri, ma anche i vecchi, che non riescono ad essere venduti come schiavi. Una civiltà che non si occupa del suo futuro tanto quanto non si occupa del suo passato. Persino il figlio del capo guerriero è allontanato dal padre e dagli altri, fino a quando il padre non lo riammette, condannandolo così alla morte. Il futuro sembra non avere speranze, se il figlio di Zampa di Giaguaro ha nome Passo di Tartaruga.
Non esiste alcun nuovo inizio: la condanna, per tutti, è quella di una guerra totale. E, anche se Zampa di Giaguaro riesce a conservare e rinnovare il suo nucleo famigliare (novelli Adamo e Eva con i due figli Caino e Abele), l’aria di guerra ha ormai riempito i suoi occhi, l’orrore e la paura lo spingono alla fuga fino alla morte.
Curiosità
Per catturare l’originale aspetto mesoamericano in ognuno degli attori i filmmakers hanno cercato ovunque in Messico, specialmente nello Yucatan e a Città del Messico. Alcuni dei più giovani membri del cast prescelto, provenendo da comunità indiane isolatissime, non avevano mai visto la televisione. Il protagonista, Rudy Youngblood, è un nativo americano proveniente dalle tribù Comanche, Cree e Yaqui. Danzatore, cantante, artista, Youngblood è anche un atleta esperto in gare di cross-country nonché pugile.
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