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Tutti gli uomini del potere

Tutti gli uomini del potere

Ascesa e declino di un uomo come tanti, Wille Stark (il re), rozzo attivista dal carisma innato che, da semplice agente si trasforma in governatore della Louisiana.
Una parabola politica, la sua. Una parabola sul senso del potere e sull’inevitabile corruzione che ne deriva. Una storia sulla natura umana e sugli effetti del comando che minano le certezze del più puro tra i puri. Un grande attivista dei diritti civili. Un combattente che, autodefinendosi zotico, conquista il popolo contadino di uno stato vessato da ingiustizia e razzismo. La mannaia degli incolti, il profeta della giustizia, l’uomo arrabbiato che, a sua volta beffato dagli algidi burocrati repubblicani, invoca eguaglianza e una vita degna per tutti.
Questo è Willie Stark, il politico. Colui che con febbrile veemenza guida le masse e si fa amare. Jude Law, il suo giovane e ambizioso “scribacchino”, che narra con distaccata precisione il corso degli eventi. Amanti di ogni genere e misura (da formose ballerine pattinatrici a Kate Winslet), alcool, ricatti, un’accusa per impeachment, appartamenti sfarzosi. Da una tranquilla vita monogama scandita da autentici valori al degenero causato da bramosie e senso di onnipotenza.

Sean Penn e Jude Law, attorniati da uno staff politico acuto quanto infingardo, si passano il testimone di protagonista a metà film e così inizia il caos.
Una trama avvincente abbracciata da un’ottima e carismatica recitazione di Sean Penn (lo voterebbe chiunque, ascoltando le sue arringhe alla folla) si annulla, sfilacciandosi, nel corso del film. Personaggi che inizialmente sembrano ben delineati perdono di consistenza man mano. Le loro intime motivazioni latitano così il senso di perdizione. La corruzione di Stark si percepisce appena (non bastano scappatelle e piccoli ricatti per convincerci)e infine resta addirittura il dubbio sulla sua innocenza. Nessun turbamento interiore, nessun fardello, semplicemente un potere che si attua, come indipendente dalla volontà stessa degli uomini.
L’occhio lucido dell’obbiettivo si sposta repentinamente verso Jude Law che, freddo e inespressivo, si dibatte, con poca convinzione, sull’eventualità di tradire parenti e amici pur di accontentare il suo padrone. Qualche leggero senso di colpa dalla sue parole ma nulla più. Qualche sbiadito ricordo di una sognante giovinezza che fu, insidiata dal disincanto dell’età matura e dalla politica che irrompe nel privato, ma nulla più.

Una storia che, abbracciando un periodo lungo circa sette anni, tra continui sbalzi e cambiamenti di visuale, indugia eccessivamente sulla vita del giornalista tralasciando quella del “re”. Il senso del tempo si perde, annullandosi. Risultato: un panettone sfilacciato e a volte contraddittorio che, privo di pathos ci trascina in sentieri di difficile comprensione. Gli uomini del re, ovvero lo staff, malgrado l’importanza che dovrebbero rivestire nella storia, da possibile fulcro della vicenda si trasformano in comparse abborracciate e inutili. Le “vittime” del potere, da Antony Hopkins a Mark Ruffalo, circondati anch’ essi da un alone di sinistra corruzione, divengono colombe sacrificali di un meccanismo poco chiaro, ridotte a semplici macchiette prive di interiorità.
Purtroppo per tenere in piedi un film a volte non basta il carisma di un uomo solo.

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