Prescelto per far ridere
Un poliziotto in crisi, la figlia di un’ex fidanzata scomparsa misteriosamente, un’isola privata nel cuore del pacifico popolata da una strana comunità avvezza a rituali pagani, eugenetica al femminile, api pericolose, miele e raccolti da preservare.
Remake dell’omonimo film del 1973, The Wicker Man ritorna, con protagonista Nicolas Cage, “prescelto” a torto per un’interpretazione scadente e poco convinta in un’opera altrettanto mediocre.
Se nell’originale di Robin Hardy venivano analizzate le regole della struttura paganeggiante capeggiata da Christopher Lee, qui a una trama più intrigante e originale, caratterizzata da una fantomatica società agricola di stampo matriarcale comandata da donne bellissime quanto crudeli, si accompagna una realizzazione, per contrasto, che sfiora i limiti della sopportazione.
Il mistero sulla scomparsa della piccola Rowan, fulcro della vicenda, si riduce a fugaci comparse spiritate di una bambina dal maglioncino rosso che ricorda, alla lontana, l’inquietante fanciullino incappucciato di Linea mortale (Flatliners, Joel Schumacher, 1990). Fantasma? Visione distorta della realtà per un Edward Malus impasticcato al limite del delirio? Gli ingredienti dell’enigma ci sono tutti, le soluzioni, invece, latitano.
Una pretesa suspence dove realtà e fantasia si fondono in un “pasticcio” dai toni parossistici che mescola, con incauta cautela, le regole del detective movie a presunte critiche sociali alla Shyamalan. Voci sibilanti che pervadono come cantilene boschi e vallate (da dove provengano e perché il protagonista non se lo domandi resta un mistero), un Nicolas Cage urlante e dallo sguardo perso che corre all’impazzata, come se fosse sul set di Speed (id., Jan de Bont, 1994), tentando di carpire informazioni da omertose signorine dal fare stregonesco.
La trama fa acqua, fin dall’inizio. L’indagine barcolla, pathos e tensione altrettanto. L’enigma si appanna di scontate e superficiali soluzioni che lasciano l’amaro in bocca. Una presa in giro, non solo verso il pubblico, ma verso lo stesso Malus, la cui sciocca ingenuità farebbe trasalire chiunque.
Paesaggi bucolici ben studiati ed evocativi incorniciano, come uniche armi di un’opera che di operoso ha soltanto gli alveari, situazioni al limite del ridicolo infarcite da dialoghi insensati che, aggrappandosi a una presunta cripticità della storia, pretendono di ingigantire il mistero.
Piume di ogni colore e misura, costumi carnevaleschi, volti pittati alla Braveheart (id., Mel Gibson, 1995), rivelano, assieme a tuniche e corone di fiori, l’imminente inizio del famigerato sacrificio agli dei dove si risolverà infine la vicenda. Di fronte a un Nicolas Cage che, con pistola alla mano, esclama: «Sorella Rose, si tenga pure la sua la sua maschera ma mi dia la bicicletta» inevitabilmente ci sorge spontaneo un sorriso… Il dramma diviene comicità, e del prescelto resta soltanto una storia che, sviluppata in altro modo, avrebbe potuto realmente appassionare.
C’è da chiedersi perché Cage abbia deciso di produrre un film del genere, e perché Neil Laboute, regista lucido e disincantato di Nella società degli uomini (In the Company of Men, 1997) si sia avventurato in un genere a lui totalmente alieno.
Altri due enigmi di difficile, quanto scontata, risoluzione.
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